Il cammino a ostacoli della riforma incompiuta
Prendiamo le norme sui licenziamenti. Monti e Fornero sono riusciti, dopo un tira e molla con le parti sociali e i partiti, a intaccare il tabù dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, vecchio di 42 anni e di ostacolo, secondo il governo, agli investimenti dall’estero. Si può discutere se l’intervento, che rende più facili i licenziamenti, sia quello giusto. E infatti le imprese lo giudicano insufficiente mentre per la Cgil è punitivo verso i lavoratori. Su una parte della riforma però tutti hanno dato un giudizio positivo: gli articoli dal 16 al 21 che istituiscono un rito giudiziario abbreviato per le controversie sui licenziamenti. Oggi queste cause possono durare molti anni, a danno delle imprese e dei lavoratori. Secondo la Cgil, velocizzare i processi era addirittura l’unica modifica da fare, senza toccare l’articolo 18. E anche i nostri imprenditori, hanno riconosciuto che questa era la priorità , pur senza arrivare a Lars Petersson, l’amministratore delegato di Ikea Italia, che quando il 10 aprile ha annunciato lo spostamento di tre centri di produzione dall’Asia alla Penisola, ha però ammonito: «Per noi non è un problema l’articolo 18, ma l’incertezza dei tempi della burocrazia e della politica».
La riforma dunque introduce un rito veloce dove la prima udienza deve essere fissata entro 30 giorni dal ricorso. Anche le eventuali fasi successive prevedono termini ridotti (30-60 giorni). Infine, si prescrive che tutti i tribunali devono riservare alcuni giorni della settimana alle udienze sui licenziamenti. Tutto a posto allora? Nemmeno per idea. Il governo è convinto di aver fatto la cosa giusta, i sindacati sono contenti, le imprese pure, ma i giudici no. E così ieri il Consiglio superiore della magistratura ha approvato all’unanimità un parere richiesto dal ministro della Giustizia che in pratica dice: signori, il rito abbreviato non si può fare se non ci date più personale e risorse. La riforma, quindi, pur se ha il merito di «deformalizzare» (è scritto proprio così) e di fissare «tempi processuali stringenti», «non può ex se assicurare al cittadino l’erogazione del servizio giustizia in tempi ragionevoli». A questo punto il governo ha il dovere di chiarire ai cittadini appunto se ha ragione lui o il Csm. E in quest’ultimo caso di provvedere, altrimenti il processo breve resterà sulla carta.
Ma gli elementi di incertezza non finiscono qui. La delega annunciata per armonizzare il pubblico impiego alle nuove regole ancora non è stata presentata e anzi l’accordo tra il ministro Patroni Griffi e i sindacati prefigura un regime differenziato per gli statali.
La riforma, finora, è stata esaminata solo dalla commissione Lavoro del Senato. Che doveva terminare ieri di votare i 72 articoli e i relativi emendamenti. Invece la conclusione è slittata a martedì perché è scoppiato un conflitto, che coinvolge anche i ministri Fornero (Lavoro) e Catania (Agricoltura), sui voucher. Si tratta di quei buoni da 10 euro con i quali un’impresa può remunerare i lavoretti accessori, in particolare degli studenti. Almeno così era quando i voucher furono introdotti dalla legge Biagi. Poi sono stati estesi a macchia d’olio dal governo Berlusconi. E oggi vengono usati soprattutto in agricoltura. Ma si prestano ad abusi. Il fatto che un buono non equivalga a un’ora di lavoro, per esempio, può far sì che si paghi una giornata nei campi con uno o due buoni. In commissione, un emendamento dei relatori rimette le cose a posto, stabilendo che il voucher è orario. Apriti cielo! Per le associazioni agricole c’è il rischio che i lavoratori tornino al nero. Eppure sembra solo una norma di buon senso.
Con gli emendamenti già approvati, la riforma è stata corretta in alcuni punti. Eliminata qualche rigidità di troppo, per esempio sulle partite Iva, dove si rischiava un ampio contenzioso; rafforzata l’una tantum per i collaboratori a progetto che perdono il lavoro e i parametri di riferimento per la loro retribuzione minima. Marcia indietro invece sull’intervallo tra un contratto a termine e l’altro e sulla necessità di stabilizzare metà degli apprendisti prima di prenderne altri. Per passare dalla «flessibilità malata» a quella sana, ci vorranno altre riforme.
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