IL BARBARO CHE VERRà€

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    Siamo ormai forse irrimediabilmente assuefatti a intendere “barbaro” come espressione massima dell’inimicus – dell’hostis cui sarà  sempre, per principio, impossibile attribuire il carattere dell’hospes. Barbaro non è solo il nostro nemico, ma il nemico del genere umano. Rude, feroce come una fiera intrattabile, impossibile da “addomesticare” – con lui l’unica pace consiste nel distruggerlo. Di conseguenza, per “salvarci” dai suoi appetiti, e conseguire il fine della sua necessaria eliminazione, ogni mezzo risulterà  lecito. Il rapporto col barbaro è quello amico-nemico allo stato puro, in qualche modo addirittura pre-politico. La storia consente di vedere con meravigliosa regolarità  quanto il ricorso a questo schema possa diventare un’arma di straordinaria efficacia nel condurre la guerra contro il proprio nemico, nel giustificarla in termini assoluti, oltre ogni calcolo costi-benefici, nel non riconoscere all’avversario alcuna dignità .

Non occorre, tuttavia, grande scienza per sapere che questa idea del barbaro nonè affatto originaria. Il termine, non omerico, si applica eminentemente alla lingua. L’equivalente sanscrito di barbaros significa semplicemente balbus, balbulus, designa, cioè, una persona che parla come fosse balbuziente. Non che sia impossibile intenderlo, ma la sua lingua ci suona simile alla pronuncia di chi sia affetto da balbuzie. Se invece si congettura che il termine provenga dall’area sumericoaccadica, anche in questo caso non si riscontra alcun riferimento ad idee di inumana ferocia: bar – non indica che lo straniero o il confinante, e perciò, di nuovo, colui che semplicemente parla una lingua diversa dalla nostra.

La separazione mortale col barbaro inizia ad affacciarsi solo in seguito alle guerre persiane. Ma basta gettare un’occhiata sui Persiani eschilei per comprendere come questa separazione sia vissuta in chiave culturale e politica, non certo nel senso di una lotta tra civiltà  e inciviltà , tanto meno tra umano e bestiale. Che cosa contraddistingue la grande, nobile potenza del “barbaro” impero dei Medi? Quale è il suo dèmone? E’ il senso dell’ illimite: illimitate terre, sconfinate distese come quelle del mare aperto, illimitati eserciti, illimitato potere del loro Re. Nulla di articolato. Non un’armonia che è composta di distinti, e anche contraddittori, elementi, ma unità  in-forme. Non un logos, che raccoglie in sé diverse voci, e in cui ogni parola assume il proprio senso grazie alla sua connessione alle altre, ma un Comando che mette a tacere ogni colloquio, ogni dialettica.

Non per nobiltà  di sangue, non per coraggio, non per grandezza di opere e gesta, Europa si oppone a Asia, ma per questo: per la potenza con cui determina ogni astratta unità , per la misura che sa conferire ad ogni elemento, per la esattezza con cui il suo linguaggio si rapporta alla cosa. Anche il Greco conosce l’illimite – ma è l’illimite da cui provengono i cosmi, gli ordini, le forme e la bellezza, alla fine, che possiamo ammirare e dobbiamo conoscere.

Barbaro è “far grumo”, unificare senza saper distinguere, o distinguere confusamente senza saper vedere il “comune” che rende possibile la stessa differenza. Barbara è una moltitudine che non sappia farsi polis. Barbara l’idea di un divenire infinito, illimite dove tutto si eguaglia nell’essere semprenuovo, o nell’esser sempre-altro, in cui F sia, cioè, impossibile scorgere un ordine, un senso, una legge. Barbara una lingua che non sia in se stessa colloquio, che non consenta ad ognuno di cercare in essa un proprio idioma, di ricavare dal grembo dei suoi possibili, e restando in tale matrice, la propria espressione, la propria parola. Vorrei dire: barbara una lingua che non custodisca in sé l’energia poetica che si cela in ognuno.

La barbarie così intesa cessa, allora, di apparire come l’astrattamente altro della “civiltà “. Barbarie è un possibile sempre “aperto” del nostro essere civile. O, ben più drammaticamente, come Vico insegna, non vi è né origine, né termine della civiltà  che non siano barbarie. Trarre dalle miniere indistinte della fantasia, delle superstizioni, delle rappresentazioni, delle passioni – più abissalmente ancora: dalla lingua muta dei segni e dei gesti del corpo, dall’ infanzia del corpo – l’ arma del logos, è fatica immensa, labor immane compiuto nella sua storia dall’animale uomo. Ma il termine di questa fatica non è affatto assicurato una volta per sempre. Anzi, all’opposto, proprio la scienza è costretta, per Vico, a riconoscere il necessario ricorso della barbarie. Che non significa ritorno dell’uguale, ripetizione dello stesso. La barbarie in cui tramonta, e proprio al culmine della sua raffinatezza intellettuale, il mondo greco-romano (il fiore non è compiuto fino a quando non appassisce, ci ricorda la saggezza orientale), quella nordico-germanica, attraverso cui si universalizza l’Annuncio cristiano, ha significato e destino completamente diversi rispetto a quella da cui si era distaccato l’arcipelago delle poleis, di cui l’ultima, e la più potente, fu Roma. Così quella “barbarie della riflessione” che Vico vedeva avanzare in seno alle civilissime monarchie, dove “l’Europa cristiana sfolgora di tanta umanità “, non ha certo il carattere di quella alto-medievale, del suo “tormento infinito”, della sua “tremenda passione”, quando il barbaro stesso poteva raffigurarsi come il Crocefisso (Hegel).

L’infinito, l’informe della barbarie avvenire non saranno più né quelli di tale tormento, né quelli dell’impero superbo di un Gran Re su terre e mari. La barbarie futura sarà  forse piuttosto la confusione che nasce dal crollo dell’idea stessa di impero, dal disincanto su ogni possibile “res publica mondiale”, e dalla complementare, universale sottomissione alle “leggi” del mercato e dello scambio, coronate in leggi di natura. Sarà  l’assenza di forma derivante dall’equivalenza universale di ogni ente in quanto merce. Sarà  la barbarie della pretesa di comunicare illimitatamente, l’apoteosi dell’idea che sia comunicare il rumore del parlarsi-informarsi all’interno di uno spazio che, per propria natura, conferisce eguale “valore” a ogni parola. Se comunicare ha il limite della forma del colloquio – dove ciascuno nella lingua comune cerca di scavare il proprio idioma – , nella barbarie avvenire, invece, il “semplice” di una sola Lingua dirà  la “verità ” di tutti. Ed è destino che debba essere, allora, accademicamente-scientificamente riconosciuto soltanto chi interpreti Dante “balbettando” in americano.


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