I rivoluzionari russi dell’800 riletti con il senno di poi

by Editore | 15 Maggio 2012 7:04

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C’è un che di sottilmente ironico da parte dell’editore Sellerio nell’aver voluto sulla copertina della traduzione italiana di The Coast of Utopia di Tom Stoppard il quadro visionario che Aleksandr Dejneka dedicò nel 1940 a Nikitka, il primo aviatore russo, alias un intraprendente servo della gleba che nel 1695 sacrificò la bellezza di 18 rubli per costruirsi un paio di ali di legno e convincere Ivan il Terribile, con un salto ben calibrato da un campanile, che anche l’uomo sa volare. Non per altro perché per tutto l’Ottocento il contadino russo, dopo le rivolte soffocate nel sangue di Sten’ka Razin e Emeljan Pugacev, si guarderà  bene da simili imprese, lasciando volentieri ai rampolli dell’aristocrazia terriera l’onere di dimostrare allo zar’ che nella vita esistono traiettorie più ardite di quelle che dal campo conducono alla stufa e viceversa. «Chi si batte per la riforma agraria non è lo schiavo ribelle, ma il padrone pentito», esclama Aleksandr Herzen nel primo tassello di questa trilogia drammatica, sintetizzando il paradosso che attanaglia i suoi coetanei più sensibili, in procinto di rinunciare «a fare i carcerieri in un paese di carcerati» per scegliere l’impervia strada del rivoluzionario. 
Più che la figura leggendaria del «mugicco volante» – nel Novecento reinterpretata, guarda caso, dal poeta non ufficiale Nikolaj Glazkov, nume tutelare dell’editoria clandestina sovietica, che in Andrej Rublev di Andrej Tarkovskij si getterà  dall’alto della splendida chiesa dell’Intercessione sul fiume Nerl’ – al centro della Sponda dell’utopia (traduzione di Marco Perisse e di Marco Tullio Giordana, pp. 408, euro 15) v’è quella non meno eccentrica dell’aristocratico «sradicatosi» – attraverso la propria formazione intellettuale – dal retroterra schiavistico che lo alimenta. E non importa che tale iniziazione al possibile si sia compiuta entro l’orizzonte speculativo della cerchia filosofica di Nikolaj Stankevic (come nel caso di Michail Bakunin) o nella ricerca di una palingenesi personale e sociale ispirata all’esempio politico-morale dei decabristi (come per Herzen e l’amico di sempre Ogarev); quel che conta è l’aspirazione a «sognare insieme il sogno di tutti gli oppressi», la rottura con il passato in nome della «religione della rivoluzione prossima ventura». 
Ma, per quanto possa apparire bizzarro, nel trittico di Stoppard è proprio l’utopia intesa come «religione senza paradiso sull’altra sponda» a latitare. Basandosi sul paradigma interpretativo di Isaiah Berlin per evocare la figura di Herzen (indiscusso protagonista della seconda e terza parte, Naufragio e Salvataggio), il drammaturgo inglese lo trasforma in un liberale ante litteram, enfatizzando le sue riflessioni sul valore irrinunciabile della libertà  individuale a discapito della anima socialista di «slavofilo rivoluzionario» (secondo Andrzej Walicki), nemico giurato del filisteismo borghese. 
Seguire acriticamente la lettura berliniana che di Herzen privilegia l’avversario di Cernyscevskij e Necaev, facendone una sorta di profeta antitotalitario, significa ridurre l’identità  profondamente contraddittoria di un uomo che, dopo il fallimento della Primavera dei popoli, riteneva «vergognoso fermarsi all’angusto punto di vista del costituzionalismo liberale», spingendosi ad affermare che «tutti i governi esistenti, dal più moderato cantone svizzero fino all’autocrate di tutte le Russie, altro non sono che variazioni su un unico tema». 
Dei «due volti» messi in luce dallo stesso Walicki non resta che quello moderato dell’Herzen autore delle Lettere a un vecchio compagno; non una parola, ad esempio, della collaborazione con Proudhon al giornale «La voix du peuple» nel 1849 o del «tribunale rivoluzionario» convocato nel 1852 per sentenziare sulla liaison della moglie Natalija con il poeta rivoluzionario tedesco Georg Herwegh. 
Affacciandosi sulla Russia dell’Ottocento dalla sponda post-utopica dell’oggi, Stoppard si espone al rischio che il pathos visionario dei suoi personaggi sia sovrastato da un incongruo senno di poi: questa almeno l’impressione che si ricava allorché Herzen profetizza a Cernyscevskij nel 1859 nientemeno che l’instaurazione della Ceka, o quando in conclusione Marx scorge l’inequivocabile spettacolo della «Neva insanguinata». Non così nel primo episodio, Il viaggio – decisamente il più riuscito dei tre – dove l’autore sfoggia lievi cadenze da minuetto per restituire l’atmosfera «meravigliosamente non russa» di Premuchino, la tenuta di campagna dei Bakunin, dove il secondogenito Michail, cadetto della guardia, irrompe ciclicamente per estorcere denaro al padre, sconvolgere la vita sentimentale delle sorelle e offrire al critico Vissarion Belinskij la possibilità  di esporre tra lo sconcerto generale il suo credo letterariocentrico. 
Ambiziosa pièce di idee, The Coast of Utopia convince soprattutto là  dove la voce dei personaggi si fa più frivola, come nelle perle di capriccioso nonsense disseminate da Bakunin o nei lapsus dell’esule Herzen («I domestici francesi sono stati la sorpresa maggiore. Sapevamo che non era consentito venderli, ma non eravamo pronti a tutta questa confidenza»). Oppure quando i giudizi politici ex-post lasciano spazio, come nel caso del vecchio Aleksandr Bakunin, ad ammissioni di umanissimo smarrimento: «Come deve essere cambiato il mondo mentre lo tenevo in pugno».

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