Guantanamo, il processo del secolo alla sbarra le menti dell’11 settembre

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NEW YORK – «Volete ucciderci tutti», urla in aula l’imputato yemenita Ramzi Binalshibh. La “mente” dell’11 settembre Khalid Sheik Mohammed si presenta con il capo coperto da un turbante e rifiuta di rispondere alle domande del giudice. Inizia nel caos e tra le polemiche il processo del secolo, dentro la base di Guantanamo, ai cinque presunti registi della strage in cui morirono 2.976 persone al World Trade Center. Scoppia in lacrime Jim Riches, padre del vigile del fuoco Jimmy Jr. che morì portando soccorso alle vittime delle Twin Towers. «Sono qui al suo posto, anch’io sono stato un pompiere, ho visto come hanno ridotto mio figlio, lo hanno fatto a pezzi». Riches è alla base militare di Fort Hamilton, a New York, una delle sedi dove i familiari possono seguire il dibattimento a distanza. 
Questo è il processo che non si doveva fare. Barack Obama aveva promesso di trasferirlo alla giustizia civile, in un tribunale di Manhattan a pochi isolati da Ground Zero. Fu bloccato dal Congresso, repubblicani e una pattuglia di democratici negarono i fondi per la chiusura di Guantanamo; contribuirono anche l’opposizione del sindaco di New York, e i costi enormi che la città  avrebbe dovuto sopportare per le misure di sicurezza. Per il processo è quindi il secondo inizio, dopo un primo tentativo sotto l’Amministrazione Bush nel giugno 2008. Si resta dentro la giustizia militare: è questo il bersaglio delle polemiche lanciate dai legali della difesa. 
L’avvocatessa Cheryl Borman si presenta alla corte indossando uno hijab nero, spiega il silenzio del suo cliente Walid bin Attash con i «maltrattamenti subìti in carcere»; esige che le donne presenti in tribunale «vestano in modo appropriato» per non costringere gli imputati «a commettere peccato» guardandole.
Obama per rispondere alle obiezioni di molte associazioni di tutela dei diritti civili, ha riformato il codice militare. La novità  più importante: non potranno più essere usate contro gli imputati «testimonianze estorte con la tortura». E’ un cambiamento decisivo, potrebbe cambiare le sorti del processo, perché il solo Sheik Mohammed dalla sua cattura nel marzo 2003 è stato sottoposto a 183 “sedute di waterboarding”, gli interrogatori-tortura con l’immersione della testa in acqua fino al limite del soffocamento. Ora nulla di ciò che lui disse durante quegli interrogatori può essere agli atti del processo. Il generale Mark Martins, procuratore capo che rappresenta l’accusa (mentre la maggioranza dei difensori sono civili) si dice «fiducioso che questa corte garantirà  agli imputati le stesse tutele di un processo civile». 
Restano delle “condizioni speciali”, sono visibili già  all’apertura del procedimento. Nessun giornalista è ammesso in aula. La seduta viene trasmessa in video a distanza in diverse basi militari. Solo alcuni familiari delle vittime dell’11 settembre, insieme a una pattuglia di giornalisti, sono stati sorteggiati per andare nella base militare di Guantanamo, ma sono ospitati dietro una cortina di vetro insonorizzante: l’audio è trasmesso con 40 secondi di ritardo, il giudice può ordinare il “silenziatore”, e fin dalla prima seduta decide di farlo per diversi minuti. Ragioni di sicurezza nazionale possono far scattare questo blackout a discrezione della corte. 
L’atteggiamento degli imputati resta di sfida. «In questo carcere non è finita l’èra di Gheddafi», urla ancora Binalshibh al presidente del tribunale, il giudice-colonnello James Pohl. Gli altri imputati restano in silenzio «perché questo è un tribunale illegittimo», dice il legale della difesa David Nevin, mentre il giudice legge l’atto di accusa: è l’ultimo passo formale dell’incriminazione che precede l’apertura del processo. A differenza dai tribunali civili, qui gli imputati non sono tenuti a dichiararsi subito innocenti o colpevoli. Che faranno? All’epoca della prima “falsa partenza” del processo sotto l’Amministrazione Bush il numero uno degli imputati, Mohammed, sfidò il tribunale annunciando che si sarebbe proclamato colpevole, aggiunse che per lui e i suoi compagni l’esecuzione capitale era “benvenuta”. Adesso invece ci sono segnali che indicano che almeno alcuni difensori vorranno dare battaglia a lungo, contestando sia le accuse sia la segretezza del procedimento. 
Il processo del secolo, dice l’avvocato James Connell del collegio di difesa di Abdul Aziz Ali, «non può chiudersi in sei mesi, questo è inimmaginabile, siamo alla prima tappa di un percorso che durerà  diversi anni».


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