Gli anziani smarriti di Mirandola tra lacrime e preghiere
MIRANDOLA (Modena) — La signora Ines, 88 anni, ex mondina nel Vercellese, ex coltivatrice di barbabietole, è bellissima sotto la tenda, con il bastone, un mazzetto di fiori rossi e i suoi gioielli: l’anello con l’ametista, gli orecchini d’oro. Li ha portati con sé, un po’ per dignità , un po’ perché a lasciarli in casa non si sa mai. Nella furia del terremoto però ha dimenticato la dentiera. Anche per questo — ma non solo per questo — chiede a tutti quando si rientra al paese, a Cavezzo. Nessuno ha il coraggio di dirle che il paese, come l’ha conosciuto, non c’è più.
A girare nelle tendopoli, pare quasi che la zona colpita dal terremoto fosse abitata solo da extracomunitari e da anziani. Ovviamente non è così, gli adulti del posto sono in giro, a verificare i danni della casa, del negozio, dell’azienda. I bambini sono pochi e, all’apparenza, allegri: non si va a scuola, l’anno per loro è già finito, dopo la grande paura ora pare di stare in campeggio; martedì sera c’era un compleanno, un papà ha suonato la tromba per il figlio; ogni tanto però qualcuno scoppia in pianto, perché ha perso di vista i genitori. Gli psicologi spiegano che è un’euforia solo apparente, il trauma c’è stato, è dentro di loro. Ma adesso l’emergenza sono gli anziani. Qui a Mirandola hanno spostato l’ospedale in giardino, sotto gli alberi. C’è anche la tenda bianca del centro salute mentale e quella del consultorio psicogeriatrico, che si occupa appunto della mente e dell’anima dei vecchi.
La signora Ines sta bene. Ha il ginocchio sinistro fasciato, «ma non è stato il terremoto» dice tirandosi giù l’orlo della gonna a coprire le gambe. Ha solo bisogno di parlare, se possibile in dialetto. Racconta della figlia, Giuliana, che è infermiera a Modena e ora lavora qui, volontaria, come decine di colleghi. Del marito Giuseppe, morto sei anni fa, contadino e soprattutto grande suonatore di fisarmonica. Della sua amica Maria, che «regge la bottega dei panni», la lavanderia a Cavezzo, e non ha più dato notizie. La casa della signora Ines, in un condominio al limitare del paese, è inagibile, ma lei non voleva lasciarla. È stata la figlia a trascinarla fuori. Ora si rifiuta di dormire in tenda. Preferisce passare la notte sulla macchina di Giuliana, una Yaris («e dire che la mamma e io siamo un po’ rotondette…»). L’ingresso in tenda è uno choc peggio del terremoto per gli anziani: come se segnasse la rinuncia alla casa per cui hanno lavorato, il congedo dalla memoria familiare, il distacco dalla vita.
Davanti all’ospedale c’è il centro dov’erano ricoverati 104 malati di Alzheimer. Il primo giorno sono stati all’aperto, nella notte li hanno portati a Modena. Altri pazienti sono ora a Parma, Ravenna, Rimini. Se ne occupa il dottor Andrea Fabbo, 48 anni. Sta mandando fax in cui indica i farmaci e la terapia per ognuno di loro. Spiega che per un malato di Alzheimer già cambiare stanza è uno choc, figurarsi un terremoto. La paura genera confusione, «delirium» è il termine tecnico. Il dottor Fabbo viene da Prata di Principato Ultra, in Irpinia. Ricorda bene il terremoto del 1980. Dice che la differenza non è nella compostezza, ma nella consapevolezza: gli emiliani sono più esigenti, sono abituati a servizi pubblici che funzionano, hanno fretta di ripartire. Tutti, tranne gli anziani, che invece sembrano inebetiti, inerti, come chi ha perso ogni punto di riferimento. I figli passano a trovarli, si siedono accanto a loro. Ma non sanno cosa dire, di cosa parlare.
La signora Ines vorrebbe tornare a Cavezzo anche per riprendere le vecchie abitudini. «Io a messa ci vado sempre. Non sono come i giovani, che sono tutti comunisti», dice indicando un gruppo di sessantenni. «Anche mia figlia non è della mia idea. Ma a me il Signore mi ha sempre aiutato. Lo farà anche adesso». Non potrà più pregarlo nella chiesa di Sant’Egidio, però: la navata è a pezzi, un tricolore pende dal campanile smozzicato. Crollate anche le altre due chiese di Cavezzo, San Giovanni Battista, nella parrocchia di Disvetro, e la Madonna della neve, a Motta. Il bar Fiordiluna, dove la signora Ines andava a prendere il caffè, è chiuso, come tutti i negozi del centro. Il Conad dove faceva la spesa non c’è più, il portico è crollato, resta l’insegna sbilenca. Nella piazza è intatto solo il leone di bronzo del monumento ai caduti. Sul basamento è seduta una famiglia di cinesi, la figlia truccata e pettinata sorride al fotografo, il padre la guarda severo come a dire: ma che fai? Gli anziani di Cavezzo sono sotto il tendone dell’«Arena spettacoli», dove di solito si balla. Stessa scena a Crevalcore, una scacchiera di portici colorati, un gioiellino all’apparenza incolume: in realtà le case sono quasi tutte lesionate, crepe sulle facciate, crolli all’interno. Il centro è transennato. I vecchi del paese sono seduti all’ombra dei viali, sulle sedie di plastica dei bar chiusi. Qualcuno si alza per andare «alla grigliata dei dossettiani».
Va detto, senza retorica, che gli emiliani sono stati davvero splendidi, in questi due giorni mai uno sguardo infastidito, mai una risposta sgarbata, neppure da medici oberati di lavoro e da vittime che devono reinventarsi tempi, ritmi, socialità . La «grigliata dei dossettiani» è organizzata dalle Famiglie della Visitazione, una comunità che vive nel borgo di Sammartini, attorno alla chiesa e alla cooperativa. Al tavolo da campeggio ci sono l’ex sindaco di Crevalcore Valeria Rimondi, arrabbiata perché il restauro appena finito del teatro settecentesco è da rifare, il professor Pallotti africanista dell’università di Bologna, e i suoi vicini, agricoltori che hanno messo la roulotte in giardino pur di non allontanarsi da casa. Il capannone della cooperativa, costruito due anni fa secondo le norme antisismiche, è tra i pochi edifici intatti: di giorno si lavora, settore imballaggi, la notte ci dormono in venti. Altri stanno nelle dieci tende che la comunità ha messo a disposizione di anziani e stranieri.
Gli immigrati hanno perso il lavoro, molti pensano di partire. Tra i marocchini è arrivata la voce che il re ha promesso di pagare il viaggio di ritorno. In un angolo c’è sempre una donna velata con i figli: sono i casi più dolorosi, famiglie che hanno messo radici, mandavano i ragazzi a scuola, stavano pagando il mutuo di una casa ora distrutta. I senegalesi e gli ivoriani, che non hanno un re prodigo, sono disperati.
E comunque il sentimento con cui si esce dalle tendopoli è di fragilità ma anche di forza: energia, ribellione allo scoramento, voglia di vita. L’argomento preferito della signora Ines sono i nipoti — Lorenzo di 21 anni, Eugenia di 19, Elisa di 15 — e la sua giovinezza. Un rombo scuote l’aria, la signora si alza in piedi, ma è solo un elicottero che passa, si può riprendere a parlare. «Di dov’è lei? Piemontese? Quand’ero ragazza, prima della guerra, andavo a lavorare nelle risaie, a Sali, provincia di Vercelli. Mi trattavano bene e mi invitavano sempre a ballare. Allora avevo i capelli lunghi. Ora li porto corti perché tingerli ogni mese è una schiavitù. Ma sa cosa le dico? Raccontano che le scosse andranno avanti per anni, ma io non ci credo. E appena esco di qui, quasi quasi, torno dalla pettinatrice…».
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