Fusti di morte tra Seveso e Mantova
Tra l’Icmesa e la Montedison Paolo Rabitti, autore di Diossina: la verità nascosta (Feltrinelli, pp. 292. euro 16), ingegnere superperito delle procure nei processi per i maggiori disastri ambientali italiani, ci restituisce in questa «inchiesta sull’eredità nascosta di Seveso» un finale tristemente verosimile: i fusti con la diossina dell’Icmesa non hanno mai lasciato l’Italia, e neppure i confini della regione Lombardia. Rabitti, che è stato consulente dell’ex pm Felice Casson sul petrolchimico di Porto Marghera, ha collaborato con la procura di Napoli per l’emergenza rifiuti in Campania e sta curando la perizia sulle scorie smaltite in Lombardia sotto la nuova autostrada «Brebemi», fa tesoro dell’esperienza acquisita nei «processi impossibili» contro i colossi industriali per tentare di far luce su uno dei grandi misteri italiani: l’incidente dell’estate del ’76 al reattore di triclorofenolo dell’Icmesa e la nube letale di diossina che investì i vicini comuni di Seveso, Meda, Cesano Maderno, Desio, Bovisa. La sua indagine suggestiva, che riesce anche a dimostrare come il reattore dell’Icmesa fosse congegnato per la produzione di diossina per l’industria militare, parte da un dettaglio, un’invisibile evidenza che è sempre stata sotto gli occhi di tutti: due binari ferroviari, discreti e sicuri, che collegano l’Icmesa di Seveso alla Montedison di Mantova. La «pista italiana» Portare ad ogni costo le scorie dell’Icmesa «fuori dall’Italia» era la missione ufficiale del senatore andreottiano Luigi Noè, a capo dell’Ufficio speciale Seveso dal 1979 dopo diversi anni passati ad occuparsi di scorie nucleari ai vertici dell’Enea. Secondo la versione ufficiale, la notte del 10 settembre 1982 Noè avrebbe seguito personalmente il carico con la diossina fino a Ventimiglia, al valico con la Francia. Cosa sarebbe accaduto poi ai fusti che contenevano le terre di bonifica e i residui del reattore A101 poco importava, il problema era liberarsi dell’incubo-diossina, poter dire che il pericolo era lontano da Seveso e da Milano, in un luogo segreto e ovviamente «al sicuro». I fusti sarebbero diventati, come riporta Rabitti, il vero «spettro» in giro per l’Europa: secondo i francesi non c’è alcuna traccia di quel passaggio alla dogana di Ventimiglia. L’ex ufficiale paracadutista Paringaux, cui Noè affidò il carico letale, fu arrestato poco dopo per aver trasportato illegalmente i rifiuti in territorio francese, ma nemmeno davanti ai giudici rivelò dove si trovavano i fusti. E se semplicemente non fossero mai usciti dall’Italia? Torniamo a Mantova. Nel 1975 la Montedison inaugura un inceneritore per rifiuti pericolosi all’avanguardia in Europa, in grado di bruciare le scorie a una temperatura di oltre 1000 gradi centigradi, temperatura alla quale si credeva erroneamente di poter distruggere la molecola di diossina. Tra gli stabilimenti Montedison e Icmesa era attivo un collegamento ferroviario. E in molti a Mantova ricordano un episodio dell’estate dell’80, quando all’improvviso le foglie delle piante rivolte verso il petrolchimico diventano gialle, le altre rimangono verdi. Alberi che d’improvviso si sono seccati e sono morti, come quelli del Vietnam sotto l’Agent Orange alla diossina sparato dai marines. Il racconto si sposta poi dieci anni più tardi, quando un medico di base comincia a riscontrare un inspiegabile aumento di sarcomi dei tessuti molli nella popolazione vicino al petrolchimico di Mantova, un tumore raro direttamente associato alla diossina di Seveso (Tcdd). L’autore lo specifica più volte: non posso affermare che la diossina dell’Icmesa sia stata bruciata a Mantova. «La pistola fumante non c’è scrive Rabitti – però ci sono le tracce del passaggio dell’assassino, ci sono le vittime, non manca l’impronta digitale». C’è la scomparsa di 35mila metri cubi di terre scavate nella «zona A» di Seveso; c’è l’incertezza sulla sorte di 1600 tonnellate di prodotti clorurati stoccati nell’azienda che, secondo l’Ufficio speciale, «sembra siano andate alla combustione nel mare del Nord». C’è la confessione, in punto di morte, di un ex operaio della Montedison. C’è la prova, come dimostrato dai documenti fotografici, che i fusti ritrovati nell’83 ad Anguilcourt-Le Sart non sono uguali a quelli partiti dall’Icmesa. L’eredità di Seveso Ma soprattutto c’è la ragionevole consapevolezza che non vi era alcun motivo di portare a tutti i costi la diossina fuori dal territorio italiano, tessendo intrighi internazionali, sborsando miliardi di lire e accumulando segreti, e ricatti, in giro per l’Europa. La questione del disastro dell’Icmesa si poteva regolare benissimo nell’«eccellente» Lombardia. In Diossina si possono trovare tutti gli elementi di quell’inquietante «sistema» in cui ancora oggi sprofonda la regione «locomotiva d’Italia»: imprese che nascondono o falsificano i dati, autorità sanitarie che non controllano, studi epidemiologici che non concludono mai nulla, stampa imboccata con informazioni e scoop pilotati. Eredità dei «giorni del silenzio» di cui parla anche Andrea Palladino nel suo Trafficanti (Laterza): quegli interminabili otto giorni del luglio ’76 in cui la popolazione ha continuato ignara a vivere, camminare, mangiare, respirare in mezzo alla diossina.
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