Finale Emilia, la memoria storica in calcinacci

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L’angoscia che ti prende all’istante mentre dalla stanza accanto arriva un urlo e hai già  gli occhi in su, verso il lampadario che si è rimesso a oscillare forte. L’impazienza di sapere dalla rete e dal televideo quant’è stata forte questa volta la scossa. E poi l’immagine che condenserà  il ricordo di due notti senza sonno: quello che restava della torre dei Modenesi a Finale Emilia, appena vista in tv dimezzata per lungo e con l’orologio slabbrato a metà , ora non c’è più neanche quello. Sarà  in questa figura a due tempi della distruzione di un edificio antico, noto e caro a quelli del posto (tanto più caro quanto lo sia stato in modo inavvertito, per abitudine quotidiana piuttosto che per prescrizione scolastica), che si condenserà  per tutti il ricordo di questo terremoto. Così come quello dell’Umbria resta fissato nella durata terribilmente protratta dei pochi attimi durante i quali una parte della Basilica Superiore si sbriciola a terra ed uccide. Finale Emilia e Assisi: ha senso chiedersi se ci può essere gerarchia quando la parte materiale della memoria storica va in calcinacci? Le distinzioni d’importanza artistica teniamocele pure per altre occasioni. Magari usiamole in modo sano e naturale (ad esempio, per rifiutare le patacche spacciate per capolavori in certe mostre, dove poi non si è neppure cercato di suggerire quella rete di rinvii e confronti che è l’unico metro della «qualità »). In occasioni come questa non ci sono distinzioni: il patrimonio culturale, che è la scena della nostra vita di ogni giorno, non conosce distinzioni. La sua individualità  di testimonianza materiale e di sedimento storico lo rende simile alla vita umana. E in questo caso c’è davvero un filo che lega la perdita di vite alla perdita delle cose d’arte e di storia. Quattro dei sette morti sono rimasti sotto la rovina di capannoni industriali, che si sono dunque rivelati più insicuri delle case. Sicurezza e prevenzione, com’è stato tragicamente rivelato, sono questione comune al patrimonio culturale. Intanto, riemerge l’assenza di progettazione di molte costruzioni utilitarie che hanno stravolto il paesaggio italiano in questi ultimi decenni. Scopriamo così che la mancanza di ogni «forma» architettonica corrisponde anche a carenze progettuali, ingegneristiche. La distruzione dell’ambiente va così di pari passo alla mancanza di sicurezza. Quella parte del patrimonio che ha dato un volto ai nostri centri storici non poteva essere costruito con criteri antisistemici, è ovvio. Ma da tempo sono stati proposti piani d’intervento per metterla in condizioni di sicurezza, per ridurne almeno l’esposizione al rischio. Si è preferito seguire strade ritenute più efficaci per la promozione culturale. Non sappiamo, per rimanere al solo caso di Finale Emilia, se gli altari del giovane Guercino o quelli di Marcantonio Franceschini e Giuseppe Maria Crespi della Collegiata, o peggio ancora, perché più vicino alla parte di questo edificio che dalle fotografie è a terra, se quel bellissimo e tormentatissimo Crocefisso ligneo anonimo, ma quasi degno di stare vicino a Cosmé Tura, abbiano subito danni, e di quale consistenza. Anche il recupero che sarà  possibile fare, dalle macerie, di queste e di tante altre cose meno note dipende dal lavoro fatto in precedenza. La Soprintendenza è già  mobilitata, ma è chiaro che le sue possibilità  di riuscita dipendono dall’opera di catalogazione e di documentazione fotografica che ora si ritrova a disposizione. Ma quanto si è investito in questi ultimi anni in Italia nella catalogazione e nella documentazione del patrimonio artistico? Finale Emilia, come tutti gli altri centri di questa parte della Bassa padana, è un vero centro storico. La torre, la rocca, perfino lo sconosciuto capolavoro di scultura quattrocentesca formano un insieme organico. Se questo piccolo, ma autentico centro storico riavrà  vita sarà  anche se, sotto, in quei capannoni industriali (in mutate condizioni di sicurezza), si riprenderà  presto a lavorare. Ma rivivrà  anche, quel centro, se non subentrerà  quel modello di «non luogo» d’antan, tipico degli outlet presso il casello d’autostrada, che ha preso piede in questi anni. * professore di storia dell’arte presso la Scuola Normale Superiore di Pisa


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