Fermenti artistici alla Comune sotto il segno di Proudhon

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In ogni crisi di sistema riemerge la tendenza a investire l’arte di un attivo richiamo alla partecipazioneIn un articolo pubblicato il 10 settembre del 1913 sulla «Pravda Truda», Lenin si spingeva a affermare che mai l’Inghilterra avrebbe messo a repentaglio la propria potenza marittima e militare permettendo che si realizzasse un tunnel sotto la Manica. Gli ingegneri c’erano, il denaro anche, i mezzi tecnici sembravano permettere la realizzazione dell’opera eppure, scriveva Lenin, la paura si era mangiata la tanto sbandierata volontà  di espansione degli inglesi, che avevano finito per soccombere alla paura di loro stessi. «La barbarie del capitalismo», scriveva allora Lenin, si mostrava più regressiva e forte di ogni desiderio di progresso. Come siano andate le cose, oggi lo sappiamo. Sta di fatto che già  nel 1832, proprio mentre Barthélemy Prosper Enfantin si apprestava all’impresa di Suez, dopo aver presentato un progetto «per legare popoli e culture» attraverso il canale di Panama (ne scriverà  dodici anni dopo, nel suo L’isthme de Panama, suivi d’un aperà§u sur l’isthme de Suez ) un artista e ingegnere di nome Michel Chevalier diede sfogo all’immaginazione, proponendo di legare gli inglesi al continente, proprio attraverso un canale sottomarino. Da dove Chevalier prendesse tutto questo entusiasmo nei confronti di uno strambo connubbio tra acciaio, trivelle e visioni utopiche è presto detto e, d’altronde, lui stesso non ne fece mistero alcuno: dalla frequentazione con le opere e le teorie sull’utilità  sociale di Saint-Simon – forse il primo a servirsi del termine «avanguardia» – e Charles Fourier. Non è un caso che Catia Gabrielli nel suo preciso L’arte in azione. Proudhon e gli artisti della Comune (Mimesis, pp. 270, euro 22, oggi alle 16.30 la presentazione a Milano all’interno della rassegna Vive la Commune!, presso il csoa Cox 18), che ha oltretutto il merito di colmare un vuoto sull’argomento, prenda le mosse proprio da un’opposizione – forse esasperata, comunque feconda – che da Saint-Simon e Fourier e dalla cerchia dei loro adepti segna in nuce il conflitto tra «verticismo» e «orizzontalità  libertaria» che per molti decenni avrebbe logorato, contrapponendole le molteplici anime del movimento operaio. Molte cose, sembra suggerire l’autrice, nascono in quel periodo e ora, forse, è venuto il momento di ricominciare a guardarle senza troppa ostilità  ideologica. Sine ira et studio , ma non senza passione. Originario della Franca Contea, nel 1829 Fourier espose la summa dei propri intenti in un volume dal titolo Le nouveau monde industriel et sociétaire ou ou invention du procédé d’industrie attrayante et naturelle distribuée en séries passionnées che grande influenza ebbe sul giovane impaginatore e correttore di stampa che ne curò la redazione: Pierre-Josef Proudhon. Furono tempi travagliati, per Proudhon, che solo dieci anni dopo, più che trentenne, trovò un po’ di requie, riuscendo grazie a 1500 franchi di borsa e pigione a completare gli studi interrotti a causa del fallimento dell’impresa di famiglia. L’autore della Philosophie de la misère fu e resterà  comunque un operaio del pensiero. Questa, almeno, l’immagine di Pierre-Josef Proudhon consegnatoci da una delle tele più esplicitamente politiche di Gustave Courbet. Tela che oggi fa bella mostra di sé al museo del Petit Palais di Parigi. Come rimarca la Gabrielli, Proudhon vi è ripreso in meditazione, con il gesto tipico della mano sul volto, accanto a lui due figlie e la traccia della moglie, un cesto da ricamo momentaneamente poggiato su una sedia. L’olio, realizzato nel 1865 alla morte dell’amico e titolato Pierre-Josef Proudhon en 1853 ha un carattere postumo e inattuale. Quello postumo è rappresentato dalla figlia minore, morta dieci anni prima del padre ma qui ritratta mandando in cortocircuito il tempo cronologico, mentre quello inattuale è rappresentato dalla data, scritta in basso accanto alle iniziali “P. J. P.” che – come rileva Catia Gabrielli – è un provocatorio accenno alle molteplici difficoltà  in quegli anni che segnarono la pubblicazione delle sue opere, tra censure, fraintendimenti, galera, ostracismi, miseria e dichiarazioni di fallimento, non ultimo quello della sua Banque du Peuple, esperimento mutualistico per dare credito senza interessi, ma durato lo spazio di poche settimane. Il legame tra Courbet e Proudhon fu forte, talmente forte che quest’ultimo si impegnò direttamente a scrivere una breve nota per l’esposizione che il pittore doveva tenere a Londra, due anni prima della morte del filosofo avvenuta il 19 gennaio 1865. Ma con Proudhon le cose non finivano mai e la brochure si trasformò presto in un saggio-fiume, Du principe de l’art et de sa destination sociale , dedicato alla storia dell’arte universale, pubblicato postumo e di cui solo quindici su ventisei capitoli sono scritti direttamente da lui (il resto redatto secondo sue indicazioni e annotazioni, alquanto precise oltretutto). Manco a dirlo, il libro trovava in Courbet il principale esponente di una vera «arte critica». Nelle quasi quattrocento pagine del suo «testamento estetico», Proudhon si concentra su un’arte in azione, etica e al tempo stesso politica. Non lo interessano lo stile, il bello, la posa che definirà  «fanfaronate da erudita», ma i contrasti, le contraddizioni insolubili, la «funzione e la destinazione sociale dell’arte» stessa. Quel «dobbiamo incanaglire l’arte» a più riprese espresse da Courbet, troverà  qui un sostegno estetico in quella aisthesis comune , etimologicamente intesa come sensibilità , che farà  dire a Proudhon: «chiamo dunque estetica la facoltà  che l’uomo ha in sé di accorgersi e scoprire il bello e il brutto, il piacevole e lo spiacevole, il sublime e il triviale, nella sua persona e nelle cose, e di tradurre questa percezione in un nuovo mezzo di piacere, un raffinamento della voluttà ». Pubblicata nel 1865, nel pieno delle crisi economiche che stravolgeranno il rapporto tra libera concorrenza e capitalismo in Francia, fondendo capitale bancario e industriale. Du principe de l’art è giustamente definito dalla Gabrielli un manifesto di «arte giustiziera». Come tale verrà  infatti letto dagli artisti, al tempo stesso artigiani e operai dell’arte, che si riuniranno una settimana dopo la proclamazione della Comune, il 28 marzo 1871. A convocarli in assemblea proprio Courbet, che intendeva discutere pubblicamente della nascente Federazione degli Artisti. Di questa storia rimangono esili tracce. Esili ma – questo il merito della seconda parte del libro, che ne ripercorre le vicende -, se debitamente riannodate, per nulla spente. In fondo, è dal 1871 che dentro ogni crisi di sistema riemerge, in modo talvolta ingenuo, la tendenza a investire l’arte di quel richiamo attivo alla passione e al prender parte che, pochi anni prima, Charles Baudelaire aveva così descritto: «per essere giusta, la critica deve essere parziale, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti possibili». Magari senza scavare tunnel sotto la manica, ma gettando ponti là  dove altri vorrebbero mandarli in frantumi o chiuderli in qualche gabbia di ferro o nel «cattivo infinito» di certa astrusa teoria.


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