Etica e spazio, le intuizioni di Ugo Ischia
Bene fa oggi l’editore Donzelli, a sette anni dalla morte dello studioso (scomparso nel 2005) a pubblicare la sua tesi con quello stesso titolo che conserva ora tutta la sua urgenza: La città giusta. Idee di piano e atteggiamenti etici (pp. 156, euro 28).
Ischia, occorre premetterlo, ha precorso alcune questioni sull’«ingiustizia spaziale» che solo un decennio dopo sarebbero state centrali nella riflessione critica di urbanisti, sociologi e filosofi. La relazione stretta tra città e diritti si ritroverà , infatti, nell’analisi di «idea di giustizia» di Amartya Sen o nell’indagine su «fiducia e paure» urbane di Zygmunt Bauman, negli scenari della «rivoluzione ambientale» descritti da Jeremy Rifkin o in quelli di una «seconda modernità » di Ulrich Beck. È però solo dai saggi di Edward Soja e di David Harvey che il dibattito sulla giustizia urbana, in relazione soprattutto all’egemonia neoliberista, ha intrapreso originali indirizzi di ricerca fornendoci un diverso approccio alle modificazioni dello spazio urbano. Quello ad esempio di Susan Fainstein che sulla scorta degli scritti di John Rawls e di Martha Nussbaum, considera il rispetto della diversità , della democrazia e dell’equità , essenziale per assicurare che la pianificazione urbanistica garantisca risultati di giustizia sociale per tutti. È utile, quindi, ritrovare menzionata nel saggio un’aggiornata serie di riferimenti teorici: sia nell’introduzione di Bernardo Secchi sia nel testo di Kaven Rashidzadeh che la curatrice, Monica Bianchetti, ha inserito con il suo come postfazione. Il testo di Ischia risulta così ancor più attinente al dibattito in corso, in attesa che anche da noi siano tradotte quelle pubblicazioni sulla giustizia spaziale.
Quello della giustizia del piano è un campo ancora da esplorare. Il pensiero critico dello spazio, ha scritto Soja in The City and Spatial Justice (2009), apre «una gamma di nuove possibilità per l’azione sociale e politica, così come per le teorizzazioni sociali e l’analisi empirica». L’aveva già intuito Ischia quando concentrò la sua attenzione sull’importanza dei «presupposti di natura etica» quali elementi di collegamento tra l’urbanistica e la politica. Così come aveva valutato le difficoltà che la disciplina incontra nei confronti dell’affermarsi della giustizia quando si mette a distinguere il tipo di «valori» che in parte la riguardano.
«Senza una più viva partecipazione dell’urbanistica alla politica – ha scritto Ischia – il suo programma tende a rinchiudersi in una sorta di autoreferenzialità del tutto impotente; identificandosi con la politica, l’urbanistica smarrisce la propria esistenza». È nella dialettica tra impegno militante e volontà di esprimere il suo «fare creativo» che, secondo Ischia, l’urbanista appronta i suoi strumenti disciplinari per la trasformazione del presente. Da questo punto di vista non può esserci ambiguità di comportamenti com’è evidente quando l’autore affronta le questioni della rendita e dei valori ambientali. Nei due casi l’inquadramento è di carattere storico-critico. La questione dei suoli ha origine negli anni ’30, quando gli architetti funzionalisti estensori della Carta d’Atene, comprendono che il progetto della città funzionale presuppone la massima disponibilità di suolo urbano.
Ma è durante la ricostruzione delle città europee nel dopoguerra che appare evidente come la questione dell’uso dei suoli coincida con quella della rendita. Superare la disparità distributiva che vede solo pochi soggetti raccogliere i benefici dello sviluppo della crescita urbana è un problema che non trovò e ancora non trova soluzioni soddisfacenti. Tutti i dispositivi normativi, in particolare da noi, si sono dimostrati inadeguati a contenere la speculazione edilizia che dalla seconda metà degli anni ’50 costituisce la sostanza dei nostri problemi urbanistici e causa di «spreco e sfruttamento».
Anche nel confronto con la questione ambientale l’urbanistica ha mostrato di avere «intenzioni virtuose», ma non sempre con adeguati risultati. Dalla visione neo-igienista di Patrick Geddes per il quale la natura è «energia» da proteggere, alla visione organica di Lewis Mumford che prevede di ricomporre l’«armonia spezzata» dell’industrializzazione con l’ambiente, Ischia giunge a centrare i problemi sollevati dalla «finitezza» della natura che l’economia ambientale disconosce e la strategia della pianificazione coglie solo in parte. L’autore ne evidenzia i limiti riguardo al consumo ambientale quando distingue tra beni privati e beni pubblici: i secondi sono difficili da trattare per il loro carattere simbolico e rappresentativo come ad esempio lo sono un particolare paesaggio naturale o un bene storico-artistico. È sempre compito, comunque, del progetto urbanistico riordinare le situazioni «connotate di unicità » affinché i conflitti che possono manifestarsi nel territorio si risolvano nel rispetto di valori condivisi intravvedendo soluzioni non per «un mondo com’è ma come può essere».
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