Emilia, la nuova strage di operai nelle fabbriche appena riaperte “Non volevamo perdere il posto”

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medolla (modena) – Puntuale come un impiegato che timbra il cartellino. Ha fatto svelto, stavolta, una manciata di secondi, quota 5,8, quasi come l’altro. Ma nel nuovo triangolo della distruzione, tra Mirandola Cavezzo e Medolla, una mezza dozzina di capannoni si sono afflosciati come fisarmoniche. Hanno nomi pratici da laborioso benessere emiliano, Gambro, Arnes, Menu, Vam, molti fanno parte del distretto del biomedicale, qui si producono organi artificiali, pacemaker, macchinari da sala operatoria per gli ospedali di tutta Europa, è una beffa crudele che il terremoto uccida dove si fabbrica la salute.
Avevano riaperto tutti da un giorno. Perché questa è una terra che vuole lavorare e non si vuole fermare mai, neanche quando dovrebbe. «Venerdì abbiamo avuto l’agibilità , era tutto a posto, è successo qualcosa che non doveva succedere dove non doveva succedere», spiega a bassa voce Mattia Ravizza, figlio di uno dei titolari della Haemotronic di Medolla, immobile dietro la bandella biancorossa mentre tirano fuori dai calcinacci la prima vittima, Paolo Siclari. Un altro dirigente dell’azienda, Claudio Cona, è affranto: «Abbiamo altri due stabilimenti, a Mirandola, erano danneggiati e non li abbiamo riaperti, questo invece era intatto…». I cani antivalanga abbaiano isterici fra i calcinacci per cercare gli altri tre operai che mancano all’appello. Un loro collega, quando ancora la polvere volava, ha provato a chiamarli al cellulare: uno suonava, ma non ha risposto nessuno. Il cugino di un altro ripete, desolato: «Biagio non era per niente convinto di tornare al lavoro, ma non voleva perdere il posto…». 
Li hanno fatti rientrare nelle fabbriche, eppure non li hanno lasciati rientrare nelle loro case. Centinaia tra i settemila sfollati erano tornati sul posto di lavoro. Molti degli operai morti dormivano da dieci giorni in macchina, o nelle tende, e poi andavano in azienda. Le case di muratura fanno paura, nel cratere del terremoto infinito. Ma i capannoni di muratura, non dovrebbero fare la stessa paura? Sì, ma le case sono state sfollate e le fabbriche no, perché «in una tenda puoi andare a dormire ma mica a lavorare», dice l’operaia Nadia dell’Eurostets, la sua fabbrica è rimasta in piedi ma lei non riesce a tornare a casa in bicicletta perché le tremano le ginocchia, e poi si ribatte da sola: «ma si lavora per vivere, mica per morire». Riccardo della Haemotronic se lo sentiva: «Appena arrivato, ho liberato un po’ posto sotto la pressa pensando: se tira anche oggi, mi riparo lì», e il presentimento gli ha salvato la vita. Un suo collega ha un piede ferito ma non vuole andare a farsi curare, «Hanno evacuato anche gli ospedali e poi c’è gente messa peggio di me», lo hanno tirato fuori dai calcinacci seminudo, «per fortuna avevo un cambio in macchina». Due operai con accento meridionale imprecano sottovoce, «i soldi, tutto per i soldi», «lavorare come cani e morire come cani».
Ma era obbligatorio, tornare lavorare così presto? Con la terra che ha i brividi cento volte al giorno? Dai leader sindacali nazionali, Bonanni, Camusso, parte l’accusa: troppa fretta. La Fiom del distretto dà  disposizioni perentorie: nessun operaio torni in fabbrica. Era proprio necessario tornare subito sotto quelle travone di cemento tirate su che sembrano appena appoggiate alle colonne, pensate quando il nemico più forte si pensava fosse il vento, castelli di carte su cui già  da giorni indagano le procure? «E lei quanto voleva aspettare per ricominciare a lavorare? Una settimana, un mese, un anno? Lei forse sa quando arriva la prossima scossa?», davanti alla “Bbg” di San Giacomo Roncole, impolverato, in maglietta, uno dei soci titolari, «mi chiamano tutti Ivan», non vuole andarsene anche se hanno già  tirato fuori i tre sepolti, uno era suo socio. Suo figlio, Giacomo Busoli, inveisce contro «quelli di Roma, ci spremono di tasse, ci costringono a non perdere un minuto, a trovare i soldi da soli per dare lavoro alla gente… Poi arriva Monti e dove va? Va a visitare le chiese, ma cosa importa se crolla un campanile, la gente non ci mangia con le campane, invece senza fabbriche qui finisce tutto, tutto». Michail, polacco, scappato fuori appena in tempo, ha già  capito come finirà  lui: «Avevo trovato casa e lavoro e ho perso tutti e due, non c’è più futuro in Italia per me e mia moglie».
Alla Haemotronics neanche i cani servono, bisogna far venire una sonda elettronica per cercare i corpi. Ed ecco, all’improvviso, verso l’una e mezza, il demone dà  un’altra botta, i moncherini di colonne sbatacchiano, crolla una parete, «Via via via!» grida il comandante dei vigili del fuoco ai suoi. «Non ci lascia più», scoppia a piangere un’operaia con il camice verde strappato. Non è uno sciame sismico, è un’orda di scosse – cento in un giorno – che vanno e vengono, illudono e fregano. Dieci minuti dopo, i pompieri sono ancora li, a cercare nella polvere. La gente viene dal paese a vedere. «È colpa delle trivellazioni», la voce corre di bocca in bocca e diventa spiegazione, qui non l’hanno mai digerito quel progetto di serbatoio sotterraneo di gas a Rivara per il quale da anni si fanno studi e prospezioni. È un guaio grosso, quando non ti fidi più della terra sotto i tuoi piedi. Gabriele, «padroncino» di camion, oggi gira in Vespa, «stamattina ho spedito moglie e figli sul, Garda dove abbiamo una casa, io forse li seguo». Per sempre? «Vedremo».
Alla Meta di San Felice, meccanica di precisione, i musulmani pregano faccia a terra in una lunga fila nel piazzale, tra ambulanze e auto della polizia, per il loro Mohamed che era un animatore della moschea di Finale. Più in là  un gruppo di sikh con barbe e turbanti piangono il loro Kumar detto Goldi. Un pezzo di Emilia multietnica scopre l’appuntamento con la morte in un paese straniero. Anche qui avevano ripreso il lavoro da un giorno: c’erano consegne da fare, termini da rispettare. «Mohamed non voleva tornare al lavoro, lo hanno obbligato», accusa il cognato Abdelrahman. Anche Singh Jetrindra, rappresentante della comunità  sikh, dice la stessa cosa: «Kumar è dovuto andare a lavorare perché non poteva perdere il posto”. Pavel, romeno, alla Meta lavora da dieci anni: «Correvo, ma le gambe non toccavano il pavimento», è ancora scosso. Anche lui, che non si fida a dormire sotto un tetto, sotto un tetto è tornato a lavorare, perché? «Non mi hanno obbligato, ma come fai a dire di no quando anche il padrone va dentro?». È l’Emilia delle fabbrichette dove anche i padrone si tira su le maniche. È gravemente ferito quel padrone, e proprio di fianco a lui una trave ha sepolto l’ingegnere con cui stava studiando rinforzi strutturali. 
Sulla Statale il Ciao bar è incredibilmente aperto, Sonia guarda i lampadari ogni minuto ma intanto inforna piadine per gli uomini con la pettorina fluorescente, «Qualcuno deve pur dargli qualcosa». All’hotel Cantina si scusano «se il servizio non è all’altezza del solito». È una terra generosa e orgogliosa l’Emilia. Ma il demone che ghigna nel sottosuolo, e non la smette, alla fine logora ogni resistenza. Carla è una donna solida, fa la camionista per la Meta, dorme in auto da una settimana e poi va a lavorare, ma se le dici Carla, come si ricomincia?, ti guarda e ti risponde: «E chi si fida più di questa cosa?», batte il tallone sull’asfalto, «appena mi lasciano rientrare in casa faccio una cosa sola, prendo il libretto degli assegni e chi s’è visto s’è visto».


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