Due monaci si danno fuoco a Lhasa la protesta tibetana nella città  santa

by Editore | 29 Maggio 2012 7:26

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PECHINO – La rivolta del popolo tibetano contro la colonizzazione cinese torna a scuotere Lhasa e spaventa Pechino. Per la prima volta due monaci buddisti si sono dati alle fiamme nel cuore della città  santa del Dalai Lama. L’autoimmolazione ha colto di sorpresa le forze di sicurezza cinesi e si è consumata davanti a migliaia di pellegrini raccolti in preghiera. Teatro del sacrificio la piazza del Barkhor, il circuito sacro dei buddisti, davanti al monastero Jokhang, il più venerato del Tibet. La notizia, inizialmente smentita dal potere di Pechino, è stata diffusa dalla redazione statunitense di Radio Free Asia e rischia di far riesplodere le proteste represse nel sangue nella primavera del 2008. 
Fino all’altro ieri i suicidi con il fuoco, iniziati nel febbraio dell’anno scorso, non erano mai riusciti ad arrivare nella regione himalayana militarizzata dal 1959. L’esercito cinese presidia villaggi e monasteri, la repressione è violenta e gli altri 35 religiosi che in poco più di un anno si sono autoimmolati, sono riusciti a farlo nelle regioni di Sichuan, Gansu, Yunnan e Qinghai, le altre parti del Tibet storico. Il rogo umano davanti allo Jokhang, il “Vaticano buddista”, ha scatenato panico e rabbia nella leadership del partito comunista. Decine di testimoni presenti sulla piazza sono stati arrestati. I conventi di Lhasa sono stati chiusi al pubblico e, secondo drammatici messaggi diffusi su Internet, sono assediati dai soldati. Pechino ha subito isolato il Tibet: vietato l’ingresso a giornalisti, turisti e stranieri. Centinaia i tour saltati e pesanti le conseguenze economiche: la regione resterà  off-limits fino alla fine dell’anno. 
La repressione cinese è tornata a stringere l’assedio anche nelle vie attorno al Potala, l’antica sede del Dalai Lama su cui sventola oggi la bandiera rossa con le cinque stelle. Le poche informazioni che riescono a filtrare dal muro eretto dalla censura parlano di cecchini sui tetti, negozi chiusi e strade occupate dai militari. L’incubo di Pechino è che le autoimmolazioni dei monaci dilaghino anche in Tibet, sollevando un’ondata di proteste internazionali contro il martirio di Lhasa. L’ultima rivolta, quattro anni fa, scoppiò alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino. Questa, altamente simbolica, si consuma invece nell’anno della decennale transizione del potere. 
In autunno i vertici del partito cambieranno: i nuovi leader, Xi Jinping e Li Keqiang, succederanno a Hu Jintao e Wen Jiabao. Il potere rivela però fragilità  senza precedenti ed è scosso da pericolosi scandali. Il leader neo-maiosta Bo Xilai è stato epurato dopo la fuga del suo braccio destro nel consolato Usa e sua moglie è accusata dell’omicidio di un businessman britannico. Riformisti e conservatori combattono per il controllo del politburo, il partito è indebolito dalla corruzione, l’esercito è in fermento e indiscrezioni accreditano la voce di un tentativo di colpo di stato sventato all’ultimo momento. Nei giorni scorsi la fuga-beffa del dissidente Chen Guangcheng, ora riparato a New York, ha ridicolizzato gli apparati di sicurezza e posto sotto accusa la fedeltà  del loro ministro. Anche i roghi a Lhasa, per i tibetani una sorta di carcere a cielo aperto, rivelano un inquietante scricchiolio del potere. Nessuna immagine della doppia autoimmolazione è stata diffusa. Secondo la diaspora buddista in esilio un monaco, Tobgye Tseten, diciannovenne del famoso monastero di Labrang, nel Gansu, è morto avvolto dalle fiamme. Il secondo, di nome Dargye, preveniente dal monastero di Kirti nel Sichuan, culla della rivolta e isolato dalle forze armate da quattordici mesi, è gravemente ustionato ed è stato portato via dagli agenti. Entrambi, avvolti dal fuoco, avrebbero gridato slogan contro la dominazione cinese del Tibet e a favore del ritorno del Dalai Lama a Lhasa. 
Il ministero degli Esteri di Pechino, che considera le autoimmolazioni «atti terroristici», si è limitato a dire che tali gesti «non sono popolari, hanno ragioni politiche e sono destinati al fallimento». La Rete parla invece di un Tibet «in ebollizione e pronto ad esplodere», mentre da Dharamsala il governo tibetano in esilio ripete che «quanto sta succedendo è molto triste, ma anche molto impressionante e molto importante per tutto il mondo». Pechino non può permettersi una destabilizzazione della Cina, impegnata a contrastare la crisi economica importata dall’Occidente, e negli ultimi mesi ha avviato riservatamente la successione al Dalai Lama, prossimo ai 77 anni. I servizi segreti, nella prefettura di Shannan, sono riusciti a far sottoscrivere da mille monaci il primo documento contro Tenzin Gyatso e a sostegno del Panchem Lama nominato dal partito. Le spie cinesi starebbero raccogliendo campioni di sangue, urina e capelli del Dalai Lama, nel tentativo di avvelenarlo durante i suoi incontri pubblici all’estero. Nel fine settimana, nel corso della visita in Austria, agli estranei è stato vietato di avvicinarsi. Nonostante la censura, Internet sta diffondendo in tutte le regioni tibetane la notizia delle immolazioni davanti allo Jokhang di Lhasa. Pechino teme ora un gesto clamoroso nella capitale, magari in piazza Tiananmen, in concomitanza con l’anniversario del 4 giugno 1989. A tarda ora è stato sospeso Internet nei locali pubblici, in centro sono comparsi anomali posti di blocco e si teme un rafforzamento della repressione.

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