Don McCullin Addio alle armi

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Non c’è autentica casa inglese senza i suoi fantasmi, e casa McCullin, edificio di pietra tra le pieghe del Somerset, non fa eccezione. Ma sessantamila fantasmi sono un po’ troppi. «Ogni sera, quando vado a dormire, so che sono lì, li sento. Li conosco tutti, uno per uno». Sessantamila fotogrammi nell’archivio di quarant’anni di guerre, Vietnam, Cipro, Libano, Afghanistan, Biafra, Ulster, India, il lunghissimo medagliere scuro di uno dei più grandi fotogiornalisti del Novecento. Ma non c’è angoscia nella voce di questo malinconico signore britannico di settantasei anni, dai lineamenti belli e marcati, c’è una tristezza rassegnata. «Posso sopportarli. Ho dormito tante volte di fianco ai cadaveri, sul campo di battaglia. Posso convivere con gli spiriti malvagi delle immagini che abitano nella mia casa». 

Don McCullin ama la camera oscura. Ci passa ancora ore ed ore, «dev’esserci una ragione per seppellirsi al buio, e io ho quella ragione». Ma, dopo, ha bisogno di grandi spazi disabitati, di respiro. Esce spesso di casa con la fotocamera a tracolla, quasi solo d’inverno, «quando la luce è cinerea, e il cielo è wagneriano. La campagna del Somerset è meravigliosa d’inverno, con gli alberi spogli, i campi umidi, adoro questa nudità …». Dal clangore dei campi di battaglia ai pascoli pacificati della campagna inglese. Come se avesse voluto svuotare l’orizzonte da tutta quella violenza. «Queste sono le terre di Re Artù. Anche la storia della Tavola Rotonda è fatta di guerre e di violenza. Ma almeno, è una leggenda». I paesaggi di McCullin, in verità , nessun ufficio del turismo oserebbe stamparli su una brochure. Scuri, misteriosi, inquietanti. Cosa nascondono, cosa c’è dietro? «Ci sono io. Chi altri? Ci sono i miei sentimenti, la mia oscurità . Ho aggiunto dramma ai luoghi. Non cercavo bellezza disinfettata tipo Ansel Adams. Ho passato molti anni da solo in questa casa. Ci sono altri drammi nella mia vita oltre quelli di cui sono stato testimone, ogni uomo ha una storia e io ne ho molte. Sono un essere umano comune». 
Donald McCullin, stanco di guerre. Accadde improvvisamente, vent’anni fa, «quando mi accorsi che non sopportavo più di essere chiamato “fotografo di guerra”, espressione terribile, che suona mercenaria e complice». Henri Cartier-Bresson, visitando una sua mostra, gli disse una sola parola: «Goya». Sì, ma Goya non aveva personalmente abitato gli scenari dei suoi massacri. La condanna di chi fotografa l’orrore è dover far passare attraverso i propri occhi e la propria anima le immagini con cui cerca di «sconvolgere la tranquillità  di quelli che stanno a casa». Il fardello della testimonianza può schiantare la coscienza, di chi ce l’ha. È questo che le è successo? «Non contano nulla i sentimenti dei fotografi, quel che conta sono le sofferenze dentro le mie foto, non dietro, come mi sento io non ha alcuna importanza». Riprende: «Ogni sofferenza deve essere raccontata. Tanti colleghi fotografano la guerra come un mestiere, io non l’ho mai fatto. Per me era una crociata». 
Crederci o no, non suona retorico quando lo dice. Perché si sente, nella sua voce, il peso dell’anima. «All’inizio la guerra era eccitante. Lo è sempre, tu sei giovane e la guerra ti tende al massimo. Poi ti rendi conto che ti stai eccitando a spese dei deboli, allora non ti permetti più di divertirti, capisci che il vero tuo compito è essere lì e fare dei tuoi occhi la tua voce, farlo per conto delle vittime, non per i tuoi brividi privati». A lei quando capitò? In Vietnam forse? Quando la sua Nikon le salvò la vita fermando un proiettile? «No, più tardi, in Biafra. In Vietnam fotografavo soldati in guerra, e i soldati sono addestrati ad ammazzare soldati. Ma vedere un bambino che ti crolla davanti per la fame, vederne morire centinaia ogni giorno, non è umano, non è tollerabile». C’è una foto di McCullin che tutto il mondo conosce: un bimbo biafrano albino, testa enorme, corpo prosciugato, sguardo vuoto, assurdamente in piedi, una scatoletta di carne nella mano scheletrica. «Non riesco più a guardare quella foto. Sono vent’anni che non la stampo. È la fotografia dell’oscenità  più oscena che un uomo possa immaginare».
Essere nella guerra senza essere della guerra, senza appartenere alla guerra. Non si immaginava che fatica sarebbe stata, quel ragazzino «terribilmente dislessico» di Finsbury Park, pochi libri molta vita di strada, cresciuto sotto le bombe di Hitler, quando vendette all’Observer la sua prima foto di una gang di periferia, presa con una Rollei che andava e veniva dal banco dei pegni. E che fatica, poi, abbandonare la guerra, prima di farsene conquistare. Ha vinto la sua crociata, signor McCullin? «No. Nessuna fotografia ha mai fermato una guerra. Le due foto più famose del Vietnam, ricorda?, l’esecuzione del Vietcong, la bambina bruciata dal napalm, scattate da due grandi fotografi… Ebbene, la guerra continuò per altri sette anni dopo quelle foto». Tutto inutile? Sospira: «Sa, ho appena fatto un lungo viaggio fotografando i confini dell’impero romano. E vede, sono passati duemila anni, ma di fronte alle rovine di Palmira o di Leptis Magna io non riesco a non sentire che quello splendore fu costruito sulla crudeltà  e la violenza. Ci sono guerre, oggi. Ce ne saranno domani. Quando fotografavo le guerre, l’ultimo rifugio del mio ottimismo naà¯f era che la domenica mattina (ho lavorato per decenni al Sunday Times) un primo ministro, vedendo una mia foto, si facesse cogliere da un dubbio». 
A chi ha lasciato i campi di battaglia, non lo sa. È amareggiato da quel che vede sui giornali. «Questi fotografi embedded, al seguito degli eserciti… Non capiscono che è un trucco, che è censura? Intanto non si vede una sola foto dalla Siria. Non capisco. Bisogna far vedere alla gente quel che non può vedere, quel che nessuno può sopportare di vedere, o questo mestiere non ha più senso». Stanco di guerra, non pentito. È stata davvero, la sua vita, quel comportamento irragionevole che dice il titolo della sua autobiografia? «Ho fatto almeno una cosa irragionevole: distruggere il mio primo matrimonio, per poi vedere mia moglie ammalarsi e morire il giorno stesso delle nozze di nostro figlio. Ho mostrato tante tragedie agli altri, la vita ne aveva una da mostrare a me».


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