Da Venere al burlesque come cambia l’oscenità
«Nella Danae, che già inviai a Sua maestà , la figura era rappresentata tutta dal davanti. In questo nuovo dipinto ho voluto variare la visione e mostrarle la contraria parte», perché «risulti più gradevole alla vista». Con queste righe Tiziano preannunziava a Filippo II, sulla metà del Cinquecento, l’invio del quadro, Venere e Adone. È un tentativo di spiegare al castigatissimo monarca di Spagna che cosa lo abbia convinto a mutare la prospettiva assegnata ai nudi: non più frontale, ma orientata su ciò che mezzo millennio più tardi si sarebbe chiamato «il lato B». Trovo la lettera all’inizio della Storia dell’oscenità , scritta dal saggista e narratore uruguaiano Hugo Martànez de Leà³n (Odoya, traduzione di Ariase Barretta, pagg. 240, euro 16).
È una ricerca impegnativa. Certo, la prosa adoperata apparirà a tratti maliziosa, ma qualche inclinazione verso un linguaggio “andante” è il minimo prevedibile. Colpisce invece la passione culturale che il volume testimonia. Prima ancora che un trattato, è un “manifesto” a favore della libertà di esporre o rappresentare il sesso – coi pennelli, e via via tramite teatro, stampa, macchina fotografica, cinecamera, telecamera – e contro chiunque tenti di ostacolarla. Si confuta il secolare allarme dei legati pontifici, dei perbenisti e di ogni altra «forza della virtù». Ne vien fuori un conflitto fra crociata e crociata: una “codina”, l’altra trasgressiva. Non occorre chiedere da che parte si schieri Martànez de Leà³n.
Finiscono al macero quelli che troppo a lungo si sono chiamati «i limiti del pudore», fra l’esultanza dell’autore (e, per lunghi tratti, del lettore). Apprendiamo subito che a Tiziano – almeno con Filippo II e la Danae, contro la quale la persecuzione scatterà in seguito, fino a farla considerare un «pericolo pubblico» – era andata discretamente. Non andò affatto bene a Michelangelo. Un suo discepolo, Daniele da Volterra – passato poi alla storia come “Braghettone” – si impegnò a ricoprire con castigati perizomi i nudi della Sistina, i quali suscitarono l’indignazione, fra gli altri, del licenzioso ma imprevedibile Pietro Aretino. Un destino perfino più severo sarebbe toccato, cento anni dopo, al Giudizio di Paride di Rubens, per iniziativa di prelati e porporati. L’artista si rifiutò di modificare l’opera giudicata troppo naturalista. Sostenne che, che se aveva trattato quel tema, con le nudità che implicava, era per dimostrare «il valore e il coraggio» della sua pittura.
Nel 1700 sempre un re di Spagna, Carlo III, si distinse a sua volta per rigore censorio, elencando le opere più «lascive» della collezione regale per mandarle al rogo. Proposito sventato in extremis, quando quei dipinti-scandalo vennero relegati in un edificio deserto ai margini dell’Alcazar. Fece epoca, tanto per dirne un’altra, l’attacco dell’Inquisizione a Goya. Nel 1815 l’autore delle due Maja, vestida e desnuda, finì in Tribunale.
Veniamo a tempi più vicini. Dalle pagine di Martànez emergono di rado, artisti sublimi, ma ad affacciarsi in massa sono danzatrici e soubrettes, le cui fattezze intime si offrono alla «voracità voyeuristica del maschio». Beati loro. Ma gli ecclesiastici – sorretti dalle consuete pattuglie di borghesi sessuofobi – non paiono d’accordo. La censura non demorde. Dall’operetta al can can, dal burlesque (un termine di recente risuscitato) al café-chantant, fino ai palcoscenici di striptease, straripa il catalogo di dissolutezze esibite dall’autore, e represse dai moralisti. Le notti si popolano di simili «temerità ». Eccone i primi ingredienti ed effetti: «tacchi alti, frustini e camicette con volant creano, grazie alla sensazione di movimento, un’euforia di straordinaria trasgressione». Oscenità ? Certe cose dipende da come si guardano. Sono comunque stati d’animo o di corpo capaci d’impressionare un letterato insigne, Heinrich Heine, che scrive: «Il can-can è una danza che si esegue solo in posti indecenti. La donna che balla, o il signore per il quale balla, sono spesso accompagnati fuori da un poliziotto». Non si capisce bene se un tale esito indigni Heine o lo entusiasmi.
L’autore non dimentica alcun locale, cognome o indumento che rifletta la mitologia divistico-sessuale legata alla Belle à‰poque. A gremire le pagine sono lo Chat Noir, le Folies Bergère, il Crazy Horse, il Condor Club. Vi si celebrano donne da leggenda: Isadora Duncan, Louise Weber (detta La Goulue, cioè la ghiotta, l’ingorda), che fece da modella a Tolouse-Lautrec. Rita Renoir, Sally Rand, Bettie Page, Candy Barr, Joséphine Baker fanno scuola a certi «sex symbol seminali» del cinema, come Tedha Bara o Pola Negri fino alla Monroe, passando per Rita Hayworth, titolare di «polpose labbra che implorano di essere baciate», e per Hedy Lamarr, espositrice del primo nudo integrale, una pratica che trovò poco più tardi da noi un’emula volenterosa in Clara Calamai. Non meno memorabile, a suo modo, Jane Russell, la più lesta a indossare il reggiseno a balconcino, «prendendo di petto» le leve maschili. Oggetto di varie dissertazioni è il pelo pubico, la cui ostentazione, sulla scia di benemeriti pionieri, segnò una svolta decisiva negli annali dell’oscenità (il primo a mostrarlo in primo piano in un dipinto fu Gustave Courbet ne L’origine del mondo, 1866). È forse il caso di consigliare agli appassionati di documentarsi.
Sul finire mi pare che il libro inclini a una certa malinconia, approdando a un capitolo, l’oscenità nel terzo Millennio, che, direi, somiglia poco all’autore e non rientra a pennello nella sua sceneggiatura. Le donne si sono evolute. Certi eventi – il femminismo, la pillola, per dire – ne hanno cambiato l’animo. Le doti della pur ammirevole Margaret Thatcher venivano così celebrate dai suoi colleghi di governo: «ecco il miglior uomo politico di cui disponiamo». A farla breve, tutto sembra nuovo. Ma chissà se è un bene.
La domanda aleggia sul trattato composto da Martànez de Leà³n. La scrittrice Sharon Goulds, che egli cita, sembra confermare l’accennato disagio: «Le donne che mostrano doti di comando sono solitamente considerate maschili». E gli uomini focosi che dominano negli annali dell’oscenità , che cosa possono fare, adesso: accontentarsi di docili cretine? Poveracci, in fondo.
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