Così la parola ci salva dai veleni della storia

by Editore | 5 Maggio 2012 10:55

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Come è possibile che uno studioso di enigmistica e semiologia, sia pure tra i più versatili e ferrati, possa confrontarsi con l’autore che ha scandagliato fino in fondo l’abisso del Lager? Come sperare di descrivere l’indescrivibile esperienza della Shoah affidandosi agli strumenti della linguistica? È quanto riesce a fare Stefano Bartezzaghi nel saggio Una telefonata con Primo Levi. A phone call with Primo Levi (edizione bilingue, Einaudi, pp. 195, euro 16). Il testo muove da un’osservazione in apparenza poco rilevante: nella Babele dei campi di concentramento (luoghi disumani in cui «l’uso della parola per comunicare il pensiero, questo meccanismo necessario e sufficiente affinché l’uomo sia uomo, era caduto in disuso»), spesso la sopravvivenza era legata alla semplice padronanza del tedesco.
Infatti, spiega Levi, l’uomo incolto «non sa distinguere nettamente fra chi non capisce la sua lingua e chi non capisce tout court. […] Perciò, chi non capiva né parlava il tedesco era per definizione un barbaro». Ciò accadeva ovviamente in senso gerarchico, fra nazisti e detenuti, ma anche fra i detenuti stessi, dunque su un piano di sostanziale parità , come si vede dall’incontro dell’italiano con un sovietico: «Il fatto che un uomo, adulto e normale, non parli russo, e cioè non parli, gli sembra un atteggiamento di insolente protervia, come se io rifiutassi apertamente di rispondergli. […] con mio sollievo, se ne torna al suo fuoco e mi abbandona alla mia barbarie».
Bartezzaghi si interroga proprio su quel particolare stato definito da Levi con un nome che (e ne era certo consapevole), tradisce un’origine linguistica: barbarie. “La barbarie”, spiega l’autore della Tregua, “condizione di chi non parla la nostra lingua, diventa per estensione e rifrazione la condizione di chi rifiuta di considerare uomo l’altro uomo”. Da qui la sua desolante conclusione: «A livello piຠo meno consapevole, per molti chi parla un’altra lingua è lo straniero per definizione, l’estraneo, lo strano, diverso da me, e il diverso è un nemico potenziale, o almeno un barbaro: cioè, etimologicamente, un balbuziente. Uno che non sa parlare, un quasi-non-uomo». Il che, detto da chi compose Se questo è un uomo, suona davvero come una sentenza di morte.
Eppure l’attenzione di Levi per i segreti della lingua non si ferma qui, dato che fra i suoi interessi troviamo una spiccata propensione verso i giochi di parole, e in particolare per i palindromi. Si tratta di una pratica ben nota, che consiste nel creare delle sequenze verbali tali da produrre un’espressione sensata anche se lette al contrario (vale a dire da destra a sinistra). Sia brevi sostantivi (“Anna”), sia vere e proprie frasi (“O narici di Cirano”), si rivelano insomma double face. È questo il tema di un racconto, Calore vorticoso, dedicato ai palindromi, dove ci si chiede: le frasi reversibili sono forse vere, come “sentenze d’oracolo”? Il romanziere lo nega, ma, nota Bartezzaghi, pare quasi contraddirsi, aggiungendo subito dopo un riferimento all’alone “magico e rivelatorio” emanato dall’esattezza di simili costruzioni. Ebbene, dando prova di un autentico virtuosismo, Levi arriva a proporre addirittura un palindromo bilingue: «In arts it is repose to life: è filo teso per siti strani».
Indubbiamente esperimenti del genere potrebbero essere liquidati quali prodotti ludici, o comunque secondari, rispetto al grosso della sua produzione. Ma come non pensare al disperato pensiero di modellare un mondo, sia pure esclusivamente linguistico, capace di conservare una parvenza di senso anche se “alla rovescia”? Perché una cosa è certa; ciò che caratterizza l’orrore del Lager, in quanto appunto mondo “alla rovescia”, è la totale perdita di senso, una perdita che, anche a distanza di anni, portò purtroppo molti sopravvissuti a scegliere la strada del suicidio.
Studioso di Perec, Queneau e Calvino, Bartezzaghi analizza l’opera di Levi in una prospettiva originale, sia attraverso i suoi stretti legami con gli scrittori appena citati, sia convocando quel gran maestro di giochi e erudizione che fu Giancarlo Dossena, a riprova di quanto la parola possa talvolta tramutarsi in antidoto contro il veleno della Storia.

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