Cosa rivelano i corpi velati

by Editore | 23 Maggio 2012 8:08

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Dallo scoppio della rivoluzione, in Egitto i muri delle strade portano i segni delle trasformazioni in corso. Nelle strade del Cairo centinaia di murales, i cui autori sono per lo più sconosciuti, raccontano eventi, umori della gente, immortalano personaggi e loro gesta. Lungo un muro grigio, tra disegni e scritte di vario genere, un anonimo graffitista ha posto l’una accanto all’altra l’immagine di due giovani donne: Samira Ibrahim, la ragazza velata che ha portato in processo i militari che nel marzo del 2011 l’hanno arrestata insieme ad alcune sue compagne, costringendola a sottoporsi a un test di verginità , e Alia Magda El Mahdy, l’artista che si è fotografata nuda con indosso solo un paio di calze autoreggenti e due scarpette rosse come il fiocco che portava nei capelli. Movimenti pendolari Le foto di Alia Magda, apertamente provocatorie, sono state viste da centinaia di migliaia di persone (soprattutto in Occidente), generando animati dibattiti e certamente riscuotendo più notorietà  di quelle di Samira, la cui storia resta sconosciuta ai più. C’è chi le ha considerate un autogol, perché prestano il fianco agli islamisti e rischiano di finire per costringere l’emancipazione femminile nei modelli coatti di un certo immaginario erotico; ma c’è anche chi vi ha visto un atto di liberazione contro la repressione e la violenza maschile, contro le gabbie e i veli che rinchiudono e costringono i corpi, come racconta Ada Tosi in un articolo pubblicato sul numero di aprile di «Alfabeta2»!. Sicuramente oggi scegliere di mostrare nel mondo arabo il proprio corpo nudo rappresenta un atto fortissimo, carico di significati e di conseguenze. Negli ultimi decenni stiamo infatti assistendo a una fase di ricopertura dei corpi, dopo che per quasi un secolo c’è stato un processo di svelamento che ha portato le donne ad abbandonare i veli e gli abiti che ne nascondevano le forme. Oggi in Egitto, come nel resto dei paesi della regione, la nudità  del corpo continua a essere un tabù. Un tabù che però spesso gli artisti hanno infranto, come l’Institut du Monde Arabe di Parigi, ci racconta attraverso una grande mostra dal titolo Le corps découvert , in cui sono esposte circa duecento opere di una settantina di autori provenienti da tutto il mondo arabo. In questa mostra, visitabile fino al 15 luglio, sono esposte opere pittoriche, plastiche e fotografiche che spaziano dal XIX secolo fino ad oggi con l’intento di mostrare un mondo arabo attraversato da diverse tendenze. Come dice la pittrice e scultrice Huguette Caland, le cui opere sono esposte all’Ima in questi giorni, nel mondo arabo si alternano periodi di apertura e di chiusura, che seguono una scansione temporale regolare, quasi un pendolo che va con regolarità  una volta di qua e una volta di là . E all’interno dello stesso tempo, verrebbe da aggiungere, si possono notare dei controtempi, che accelerano o rallentano il battito, con un risultato più o meno armonico. Dentro e fuori la tradizione In un testo recentemente tradotto in italiano, Il corpo nell’islam (Argo 2012, pp. 222, euro 18), lo psicanalista e antropologo algerino Malek Chebel sostiene che il corpo rappresenta il punto d’arrivo di una civiltà , una sorta d’archivio vivente, e che nelle società  musulmane esso oscilla tra modelli di comportamento e di estetica tradizionali, reinvenzione della tradizione e adozione di un codice sociale ed estetico occidentale. Sicuramente il corpo velato e violato di Samira e quello nudo e crudo di Alia sono entrambi archivi in cui è possibile leggere plurime stratificazioni di carattere storico, culturale, politico e religioso. Nel suo denso e bel libro (non sempre di facile lettura per un pubblico di non specialisti) Chebel ci conduce tra i significati – per lo più tra quelli tradizionali – che le società  musulmane e in particolare quelle del Nord Africa attribuiscono al corpo, alle sue parti e alla loro esposizione nella sfera privata e in quella pubblica. Pagina dopo pagina Chebel ci mostra che «il corpo spiega la società » e che esso è un «puro prodotto culturale». Un’affermazione, quest’ultima, senz’altro vera non solo per il mondo musulmano ma per tutte le società  e le culture. Non è infatti difficile constatare che in oriente come in occidente il corpo è sempre stato e continua a essere espressione di condizionamenti di carattere religioso, estetico, sociale, culturale e politico. Una impossibile neutralità  Se, ad esempio, nel mondo musulmano il corpo delle donne è stato condizionato da pratiche di segregazione, copertura, velamento, svelamento e ora di nuovo copertura in seguito al grande ritorno del velo negli ultimi decenni, anche in occidente il corpo delle donne è tutt’altro che esente da condizionamenti esterni anche quando è all’apparenza liberato da tutte quelle interdizioni morali che impedivano, fino a pochi decenni fa, di disporne autonomamente; basti pensare alle pratiche della cintura di castità  d’epoca medievale, ai corsetti ottocenteschi, all’uso del reggiseno e dei tacchi a spillo, alle diete, alla chirurgia estetica, che ora arriva a riguardare anche le parti intime del corpo femminile quali la vagina, come racconta Michela Fusaschi in due bei libri apparsi a poca distanza l’uno dall’altro: Corporalmente corretto (Meltemi, 2008) e Quando il corpo è delle altre (Bollati Boringhieri 2011, pp. 157, euro 15). D’altronde, già  nel 1975, in Sorvegliare e punire , Foucault aveva mostrato come i corpi siano sempre corpi sociali, profondamente calati in relazioni di potere e modellati in relazione ad esso. Non esiste una neutralità  del corpo, il corpo non è mai neutro, che sia coperto o scoperto, che sia velato o no. La libertà  nel gestire il proprio corpo è sempre determinata dal discorso politico, sebbene con sfumature e gradi diversi. Si dice che in Iran, dove dal ’79 vige un forte controllo sui corpi ed è imposta per legge la copertura del corpo e della testa delle donne, sia possibile capire il clima politico che regna nel paese guardando cosa le donne indossano e come lo indossano. A seconda di quanto siano stretti i veli attorno alle loro teste, ma anche a seconda della lunghezza e dei colori degli abiti, è possibile misurare lo zelo dei guardiani della morale, incaricati di fustigare chi non si attiene ai principi etici della repubblica in fatto di costumi e condotta, e di conseguenza capire le tensioni e gli equilibri che regnano nel paese. Codici di abbigliamento A ben vedere, non solo il mettere o no il velo ha un profondo significato, ma anche il modo in cui lo si indossa possiede una valenza fondamentale: diversi colori, fogge, gradi di copertura della testa e del corpo, veicolano infatti messaggi differenti. In Iran, ad esempio, quando è nero e copre la testa e il corpo, indica stretta osservanza religiosa e aderenza ai precetti della repubblica islamica, mentre quando è colorato e poggiato morbidamente sui capelli, lasciando scoperte alcune ciocche, indica lontananza dai valori della repubblica islamica e ostilità  al regime. Basti pensare che negli ultimi anni sono state fatte delle campagne governative per disincentivare quello che, in persiano, viene definito badhejab , ovvero, una cattiva interpretazione dell’abbigliamento islamico, reso obbligatorio in Iran fin dagli albori della Rivoluzione, nel 1979. Lo ricorda Anna Vanzan, che ha dedicato all’esplosione della rinoplastica in Iran un articolo molto bello apparso nel 2011 su «Genesis», la rivista della Società  italiana delle storiche. Secondo diverse statistiche, l’Iran è infatti al terzo posto nelle classifiche mondiali per consumo di make up ed è il paese con il più alto numero di plastiche nasali al mondo. Una pratica questa non del tutto nuova nel paese. Era infatti già  emersa a cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60, quando molte signore dell’alta società  si rivolgevano al chirurgo per avere un naso «alla Lollobrigida», l’attrice italiana che a quei tempi era modello di bellezza per tante iraniane e non solo. D’altronde, come ricorda anche Chebel nel suo libro, il naso nell’islam è in un certo modo il simbolo della perfezione corporea: nell’uomo è avvicinato al pene, e nel corpo della donna è criterio di bellezza. Ma le ragioni per l’attuale incredibile incremento degli interventi chirurgici volti a plasmare a proprio piacimento il naso sono – agli occhi di Vanzan – almeno tre, che non si escludono a vicenda ma, al contrario, ci restituiscono la complessità  della questione del corpo nell’islam in età  contemporanea. Smalto di guerriglia Sicuramente il massiccio ricorso alla rinoplastica è dovuto al fatto che il naso è una delle poche parti del corpo insieme alle mani che può essere esposta, e pertanto vi è un’ossessiva preoccupazione per il suo aspetto; ma questa spiegazione non basta, è necessario anche pensare che nel paese persiste la volontà  di emulare i modelli di bellezza occidentali. Inoltre in Iran la rinoplastica va anche considerata una forma di sfida, una provocazione lanciata dalle donne a un potere che costringe e opprime le libertà  femminili impedendo il controllo delle donne sui loro corpi. Si tratta quindi di gesti di sfida e di resistenza all’ordine costituito che non sembrano così lontani dall’uso che le donne afgane del gruppo Rawa facevano dello smalto. In Il velo e lo specchio (Dalai, 2006), un libro che dedica molte pagine al potere rivoluzionario della bellezza e della cura di sé nel mondo islamico, Ivana Trevisani racconta che queste militanti per i diritti delle donne usassero laccarsi le unghie prima di indossare il burqa e passare il confine dal Pakistan all’Afghanistan per aprire scuole e combattere al fianco delle donne oppresse dai talebani. Il discorso sul corpo come mezzo di liberazione ed espressione individuale e collettiva ritorna anche nella letteratura araba femminile, che consacra molte pagine all’argomento. In un recente articolo apparso su «Italianieuropei», le arabiste Isabella Camera d’Afflitto e Isadora D’Aimmo ricordano che secondo la studiosa Fedwa Malti-Douglas nella letteratura araba non è solo la voce delle donne ad essere strettamente intrecciata alla corporalità , ma anche il loro stesso ingresso nel discorso letterario. In anni recenti, scrivono le due arabiste, è molto forte il legame tra corpo e emancipazione sociale nei lavori di molte autrici, come la celebre Nawal al Saadawi (egiziana), e le meno note (al pubblico occidentale) Ulflat alAdlibi (siriana), Layla Ibrahim alAhaydib (saudita), Leila Lahlou (marocchina). In busta chiusa Certamente in anni recenti la libanese (d’origini cristiane) Joumana Haddad ha dato al discorso sul corpo nel mondo arabo rilevanza internazionale tramite poesie, romanzi (l’ultimo apparso in italiano è Ho ucciso Shahrazad, confessioni di una donna araba arrabbiata , Mondadori 2011, pp. 143, euro 11) e una rivista intitolata «Jasad», che in arabo significa appunto «corpo». Specializzato in arti e letteratura del corpo, questo trimestrale ha acceso notevoli discussioni per i temi e le immagini che contiene, tanto che le abbonate nei diversi paesi del mondo arabo se lo vedono recapitare in un’anonima busta chiusa per evitare problemi. A ben vedere, attorno al discorso sul corpo nel mondo musulmano coesistono voci e visioni diverse. Osservare il modo in cui tale questione è declinata da uomini e donne può aiutare a meglio capire le società  musulmane e le numerose e opposte tensioni interne che le attraversano.

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