Corruzione (e sangue), dirigenti Eni indagati
Il reato ipotizzato dalla Procura e in relazione al quale sono indagati alcuni dirigenti Eni tra cui il responsabile di Agip Kco Guido Michelotti (ma non l’amministratore delegato Paolo Scaroni) è quello di «corruzione internazionale»; in sostanza, par di capire dalla richiesta che ha avanzato il pm Fabio De Pasquale alla giudice Alfonsa Ferraro, i dirigenti Eni avrebbero «oliato» il proprio insediamento nel paese centroasiatico con sostanziose mazzette versate a diversi funzionari kazaki del massimo livello, tra cui anche Timur Kulibayev, genero del presidente Nursultan Nazarbaev e considerato uno degli uomini più ricchi e potenti del paese. Circa le cifre versate, si parla di 20 milioni di euro: una piccola parte, probabilmente, del complessivo giro di tangenti internazionali al cui centro sarebbe un potente imprenditore kazako-israeliano legato a Kulibayev.
Kulibayev è da molti anni il vero controllore dell’industria gas-petrolifera nazionale, di cui ha occupato sia ruoli di sovrintendente pubblico, per esempio come presidente del Fondo statale Samruk-Kazyna, sia posizioni di grande azionista privato (il conflitto di interessi da quelle parti non è considerato un problema…), per esempio come presidente di KazMunaiGas, colosso del petrolio e del gas a capitale misto. Kulibayev ha anche importanti ruoli nel business internazionale dell’energia, sedendo per esempio nel consiglio di amministrazione del gigante energetico russo Gazprom, e proprio lui sarebbe stato il vero artefice delle posizioni privilegiate guadagnate da Eni nei due maggiori «campi» di estrazione del Kazakhstan occidentale, sulle rive del Mar Caspio: il campo di Kashagan, uno dei più ricchi di petrolio del mondo, e quello di Karachaganak, altrettanto ricco per quanto riguarda il gas naturale.
A Kashagan Eni è presente ormai da vent’anni: ha via via aumentato la propria quota fino al 16,8 per cento, con il ruolo di azienda-guida di un consorzio multinazionale, nonché il compito di assegnare le commesse agli aspiranti fornitori internazionali; a Karachaganak la quota Eni è oggi del 29,25 per cento (era il 32,5 ma si è appena ridimensionata in seguito a un aumento della partecipazione statale kazaka). Le risorse di idrocarburi presenti in questi due giganteschi campi sono immense (si calcola che le riserve siano le più importanti scoperte nel mondo dal ’70 in poi) e sono alla base della formidabile crescita che il Kazakhstan sta conoscendo negli ultimi anni. Il problema è che l’enorme afflusso di ricchezza che ha investito il paese si è riversato in pochissime tasche, in gran parte di personaggi legati al clan Nazarbaev (il presidente che è il vero padrone del Kazakhstan fin dai tempi in cui faceva parte dell’Urss; con lui, en passant, vanta un’improbabile amicizia anche Silvio Berlusconi, via Putin presumibilmente), mentre la corruzione ha raggiunto livelli estremi, alimentata dalle multinazionali dell’energia.
Al contrario il reddito della maggioranza della popolazione è rimasto molto basso: in particolare è rimasto bassissimo il reddito – e spaventose le condizioni di lavoro – degli operai impiegati nell’industria gas-petrolifera, al punto di provocare l’anno scorso una serie di proteste e scioperi culminati nei drammatici fatti di Zhanaozen, dove nel dicembre scorso la polizia ha ucciso decine di lavoratori in sciopero che manifestavano in piazza. Nel susseguente processo il tribunale ha scaricato sui lavoratori stessi la responsabilità del massacro, condannandone numerosi a pesanti pene detentive. La tragedia di Zhanaozen, va notato, ha coinvolto gli operai delle aziende kazake che operano a Kashagan (e, per inciso, ha spinto il citato Kulibayev a sfilarsi prudenzialmente dagli incarichi che vi ricopriva) ma l’Eni non ha ritenuto, né allora né poi, di spendere una parola per prendere le distanze dalla violenza della repressione.
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