by Editore | 3 Maggio 2012 7:34
Vedremo dunque come verranno applicate concretamente le norme. La partita non è ancora chiusa ed è bene essere molto vigili, visti gli argomenti delicati sottesi alla vicenda.
Si possono fare, al riguardo, alcune considerazioni di ordine generale. Oggi il tema televisivo conta meno rispetto all’urgenza di dotare l’Italia di un sufficiente patrimonio frequenziale da destinare alla larga banda. Tutti gli indicatori internazionali e la stessa evoluzione del mercato dei device ci dicono come stia aumentando in modo enorme la richiesta di connessione mobile. L’Italia rischia dunque, in assenza di una politica di gestione dello spettro adeguata ai tempi, di restare fuori dal nuovo «ecosistema digitale».
La stessa televisione, nel passaggio dall’analogico al digitale, contrariamente ad altri paesi, ha visto conservare se non – persino – aumentare la propria dotazione tecnica, soprattutto a favore dei principali operatori. E, nella transizione tecnologica, non si è scelto di recuperare un dividendo di frequenze da assegnare alla larga banda. È stato fatto in ritardo, spinti da ragioni di cassa, quando lo spettro era ormai occupato con problemi di costi per gli indennizzi e di liberazione delle frequenze interessate dalla gara Lte (Long term evolution).
Una parte delle frequenze oggetto dell’ex «beauty contest», che nella stessa regolamentazione dell’asta si vuole destinare alla larga banda, potrebbe essere riservata ai collegamenti in ambito territoriale.
Nel mondo della rete esistono ormai tanti operatori di medie e piccole dimensioni particolarmente interessati a risorse simili. Si parla tanto di favorire le start up digitali. Una iniziativa del genere sarebbe particolarmente utile, oltre che vantaggiosa per l’erario pubblico.
Tra l’altro, è da ribadire un punto essenziale (tra i pochi qualificanti) della nostra normativa sull’emittenza, vale a dire la riserva del 30 per cento delle frequenze attribuita alle emittenti locali. Il passaggio al digitale è, forse, l’ultima occasione per rilanciare l’ambito locale come tessera del mosaico globale: non un residuo del passato, bensì un perno del futuro «glocal».
C’è, poi, il capitolo dei cosiddetti white spaces, vale a dire le porzioni di spettro non utilizzate dagli operatori di rete televisivi. Una loro regolamentazione fin da ora consentirebbe di utilizzare al meglio gli spazi e di evitare che possano essere venduti dai broadcaster che hanno avuto le frequenze principali, dando luogo ad un mercato secondario improprio rispetto a quello gestito direttamente dallo stato.
Insomma, con la scelta di indire (entro l’estate) l’asta competitiva (con entrate stimate tra un miliardo e un miliardo e mezzo di euro, forse di più) si è raggiunto un risultato significativo. E’ dall’aprile del 2009, da quando l’Autorità delle comunicazioni decise (con voto contrastato, a maggioranza) di sdoppiare in due la gara – l’una a pagamento per le telecomunicazioni, l’altra a titolo gratuito per la televisione – che si conduce una battaglia sacrosanta. Si tratta di uscire dal «mediaevo» italiano, secondo cui le frequenze sono state considerate naturaliter una proprietà privata.
La lotta continua. Lo spettro è un bene pubblico (un bene comune, si potrebbe dire) e le risorse tecniche possono essere attribuite pro-tempore ai diversi soggetti.
Non solo. Lo spettro va regolato una volta per tutte, essendo un ginepraio incredibile, figlio di incrostazioni successive, di conflitti di interesse permanenti. Quello di Mediaset, come è apparso chiaro dalle proteste di Fedele Confalonieri e di Pier Silvio e Marina Berlusconi. Ma pure il più silenzioso ruolo di «occupante» da parte del Ministero della difesa, che ha ancora decine di frequenze di cui non si serve, ereditate (proprio così) dalla guerra fredda. Uno spectrum review per usare un linguaggio in linea con il tempo. Ma stavolta non liberista, bensì volto al welfare delle comunicazioni.
* senatore Pd
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