Cini Boeri “Dalle case alle scuole la mia architettura cerca la gioia sociale”

by Editore | 17 Maggio 2012 6:33

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Cini Boeri, ottantotto anni che scivolano su una figura esile e un caschetto di capelli appena grigi, non intende smettere di progettare. Dagli anni Cinquanta disegna case e oggetti per la casa. Al MAXXI di Roma ha tenuto una lezione intitolata «Progettare è una gioia, ma anche un impegno». L’idea alla quale sta lavorando ora non gliel’ha commissionata nessuno. E nessuno gliela pagherà  mai. Ha però un nome, “Né castigo né premio” ed è una scuola elementare. «La forma delle aule è circolare», spiega. «La forma circolare è la meno autoritaria. Ai piedi delle pareti sfilano guide dove scorrono i banchi. A seconda delle lezioni, avanzano o arretrano. Sono i bambini che decidono. Su ogni banco ci sono pulsanti per chiedere di intervenire». Un po’ Montessori, un po’ Steiner, un po’ don Milani. «Dobbiamo affidare responsabilità  ai bambini, se vogliamo un paese libero da certe impronte orrendamente stupide».
Architetta e designer, Cini Boeri recupera l’allestimento di spazi per i bambini dal suo passato. Anzi proprio dai suoi inizi. Giovane di studio con Marco Zanuso, nel 1952 si vide affidare l’asilo nido per madri nubili al Lorenteggio, periferia della sua Milano. Madri senza marito che andavano protette e anche recuperate a un senso comunitario. Vennero poi il pensionato delle Carline, una casa d’accoglienza per sessanta bambine e venti ragazze, e l’asilo di Gubbio. Architettura di piccole cose poi trasferita nel disegno industriale (sempre con Zanuso, la mensa Olivetti a Ivrea): quando narra queste esperienze, Cini Boeri tira su la schiena, marca il tono della voce e chi l’ascolta capisce quanta energia irrori le parole che servono a raccontare un’architettura di bisogni primari e non di intrattenimento. Un indole nient’affatto penitenziale che ha conservato quando ha disegnato le case per ricchi signori, come l’ostinato e poi garbatamente domato collezionista con casa nella Trump Tower, a Manhattan. 
C’è la parola gioia nel titolo della lezione romana.
«Ho lavorato sempre con entusiasmo. E anche con gioia. Il mio è un lavoro creativo e i lavori creativi danno gioia. Se posso trasmetterla provo altra gioia».
Non è un momento facile per la gioia.
«È vero. Le vicende politiche sono confuse e ho l’impressione che le persone non si sentano protette».
Che tipo di gioia c’è nel suo modo di fare architettura? È produrre bellezza?
«L’architetto lavora dove vivono persone. Non può rinunciare al suo ruolo sociale. Lo sforzo di progettazione non è concentrato sulla ricerca della bellezza».
Vede i suoi colleghi incamminati in questa direzione?
«Molti architetti progettano oggetti perché piacciono a loro stessi. È concesso, purché quell’oggetto abbia anche altri significati. Chiederei a chi comincia ora di badare a questi altri significati. Considero persino che nell’architettura vivano intenzioni artistiche. Ma che non siano prevalenti».
Anche lei ce l’ha con gli archistar?
«Gli archistar sono persone decorate dal pubblico. Il nostro ruolo deve essere più serio».
Qui siamo al MAXXI. Zaha Hadid è un archistar.
«È molto artista, ma è intelligente. Quando ho saputo che avrebbe lavorato in un contesto urbano a Roma, mi son detta: madonna mia che paura». 
Perché si è concentrata sull’abitare?
«Ho iniziato negli anni Cinquanta, quando le donne erano poco considerate come professioniste. Carina la signora Boeri, dicevano, come si mangia bene a casa della signora Boeri. Mai che dicessero: che brava architetta. Tempo fa presentavo un libro insieme a Vittorio Gregotti. Lo conosco da una vita. Non si rivolge a me dicendo “Sentiamo la signora Boeri”?».
Sarà  stato un lapsus. 
«Chissà . Era molto difficile cinquant’anni fa affidare a una donna impegnative commesse o opere pubbliche. Da allora ho avuto sempre incarichi da privati, tranne qualche raro caso. E quindi mi sono occupata di abitazione». 
Si è misurata con l’ordinario, con il quotidiano.
«Sì. Anche se il committente non se ne rendeva conto, io l’ho sempre interpretato così. A partire dai dettagli di arredamento. Non sempre un divano della nonna è indispensabile per vivere bene, almeno quanto lo è per tenere viva una memoria. Ho dissacrato parecchio, ma mai con violenza». 
Lei ha cominciato con Gio Ponti.
«Era stato mio professore al Politecnico. Diceva che avrei fatto la pittrice, gli piaceva come coloravo. Mi laureai con un rilievo di urbanistica nella periferia milanese. Poco dopo Ponti mi mandò uno dei suoi biglietti disegnati. C’era scritto: “Ha voglia di lavorare? È sgobbona? Se sì, mi telefoni lunedì”».
Com’era Ponti?
«Un poeta. Lo studio era in un seminterrato pieno di water e di bidet, perché si lavorava con la Ginori. Mi ha insegnato che il primo requisito di una costruzione è l’ordine, che corrisponde a un ordine mentale del progettista. Ci imponeva, la sera, di lasciare perfettamente pulita la scrivania e le matite in piedi negli astucci».
Chi ha conosciuto da Ponti?
«Lì passavano Fausto Melotti e Piero Bottoni. Era il 1951 e l’idea di ricostruire il paese ci rendeva euforici. Anche se l’euforia non dà  esattamente la felicità . A Milano non è rimasto molto di quel clima. Alcuni quartieri popolari. Gli edifici dei Bpr, Belgiojoso, Peressutti e Rogers, o di Albini».
Poi è andata a lavorare con Marco Zanuso.
«Mi avvicinò mentre allestivamo uno stand al Salone del Mobile. Aveva fama di serissimo costruttore, innamorato della provocazione. Nel suo studio ho incontrato Ernesto Rogers, già  malato, che una volta chiese a mio figlio Tito di disegnare su un tovagliolo la sua Torre Velasca. Aldo Rossi e Franco Albini. Lucio Fontana si occupava della cappella delle Carline. Nasceva allora il disegno industriale, il cui principio fondativo era l’accessibilità : anche le persone con pochi soldi avevano diritto a oggetti prodotti in serie che facilitavano la vita. L’apparizione di Adriano Olivetti fu un motore di nuova cultura».
E adesso quanto vale quel principio?
«Molto meno. Prevale l’intenzione artistica. Come per l’architettura».
Lei disegnò il “serpentone”, un divano fatto di anelli di poliuretano, flessibile e lungo quanto si voleva, un oggetto per grandi comunità .
«Nelle mie intenzioni non era da possedere, ma da usare. Ed era economicissimo. Più recentemente sono venuti i tavoli da appendere al muro e da usare quando ce n’è bisogno. E poi i mobili su ruote, che si spostano e servono da pareti».
Il “serpentone” è del 1971, poco dopo lei si occupò di un progetto completamente diverso: la ristrutturazione della casa di Antonio Gramsci a Ghilarza. Perché?
«Mi fu commissionata dal Pci. È una casa in pietra. Al piano terra una stanza ancora piena di libri, sopra due vani, in uno dormiva Gramsci e lì abbiamo lasciato tutto com’era, ci sono sempre entrata in silenzio».
Lei ha realizzato molte case. Che rapporti ha avuto con i clienti?
«Ho tenuto una conferenza a Los Angeles. L’ho intitolata “To hate or to love the client”, odiare e amare il cliente. Se posso rispettarli è meglio, ovviamente. Se sono completamente ostili, mi domando perché siano venuti da me. Gli si deve offrire un piacere, una facilità  del vivere. Ne ho visti di tutti i generi. Intelligenti, colti, sensibili. Ma anche l’opposto. Una cosa mi è sembrata sempre chiara. Se a uno si dice: “Guardi lei è uno stupido”, la prende per una battuta e si mette a ridere. Ma se gli si dice: “Lei non ha gusto”, se ne va offeso a morte».

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