CHE COS’E’ UNA SCONFITTA

by Editore | 29 Maggio 2012 6:47

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Il senso di una fine di Julian Barnes (Einaudi) è un romanzo breve, ma profondo. Un capolavoro minimo, niente affatto minimalista. Che per densità , per gravità  del tema impone al suo lettore un confronto con gli assi portanti dell’esistenza: il problema del tempo e del senso – il senso, appunto, della fine. 
Barnes è uno scrittore colto e consapevolmente, a mo’ di omaggio, riprende il titolo che il grande critico inglese Frank Kermode, più di quaranta anni fa, dava a un proprio libro dedicato alla teoria del romanzo e alle strategie narrative che portano a conclusione le peripezie della trama. Dove osservava come lo scioglimento finale assuma spesso la forma di una “rivelazione”, mentre il tempo narrativo, dominato dall’attesa tragica, ossessionante, della fine, procede di crisi in crisi in un’atmosfera densa di terrore, dove prendono corpo fantasie persecutorie, strane. 
Allo stesso modo Barnes gioca nel suo romanzo con i molteplici sensi di quella formulazione, che riguarda sia la fine ultima, sia il finale di un racconto, di una storia. E trasporta noi lettori nella vertigine di un’apocalisse, che non è soltanto una questione squisitamente letteraria, ma esistenziale; e riguarda le vicende umane di un personaggio-uomo, che è poi l’io narrante del romanzo, ormai entrato in quella zona grigia dell’età , dove il tempo volge al termine.
Per personaggio-uomo si intende qui l’uomo maschio bianco occidentale, che si presenta nella maschera di Tony Webster – un uomo senz’altra qualità  che quella di essere uno come tanti, medio, mediocre. Ma attenzione, la caratterizzazione very english non riduce affatto la portata universale del giudizio impietoso, implacabile, che il romanzo emette sull’uomo maschio e sull’amore eterosessuale, in generale.
Non a caso all’inizio è evocato Enrico VIII, eterosessuale archetipico, che le mogli come Barbablù le usa e getta. E a seguire, T. S. Eliot che sintetizza in «nascita, copula e morte» l’esistenza umana nella terra desolata dei suoi tempi. E ancora, Ted Hughes, con il suo triste primato di mogli suicide. Tutti casi in cui Eros e Thanatos si congiungono senza nessuna ebbrezza in un funesto abbraccio di eros represso e morte in vita. Che è poi l’atmosfera del romanzo.
Nell’esistenza dell’uomo qualunque Tony Webster, nel suo (nostro) universo un’epica della banalità  ha preso il posto di azioni un tempo più significative, addirittura eroiche. Tony è in tutto una creatura spaventata, che invece di vivere si protegge dalla vita… Ma è stato giovane, e noi lo incontriamo da ragazzo, a scuola, in quel “recinto” dove tutti siamo stati prigionieri, con la stessa «fame di libri e di sesso». Solo che dentro quella stia per polli, o sala d’attesa, Tony ha già  deciso che sceglierà  una vita quieta, calma. E qui emerge la parola su cui poggia il terrore: stagnancy, che rima con pregnancy. Un amico si è suicidato, perché la sua ragazza è rimasta incinta. Ecco perché Tony preferisce la stagnazione alla gravidanza. Con Veronica Tony pratica un sesso a metà , mai completo. Un esempio di perdita, di spreco. Un’immaginazione d’incubo, che diffonde intorno alla relazione con l’altro sesso una luce al neon, da camera operatoria.
Altro che Eros e Thanatos! Intorno al rapporto eterosessuale alitano zaffate di falsità , di ipocrisia. Nessuna solidarietà , nessuna amicizia tra l’uomo e la donna. Anche perché Veronica è infinitamente più intelligente, più viva in tutti i sensi. Mentre Tony è ottuso, non capisce, non ci arriva, teso com’è a mantenere la “stagnazione”. 
Epperò, non ci riesce. Anche in questo è impotente. L’inquietudine vince. Serpeggia the unrest – altra parola chiave che la brava Susanna Basso traduce con «tempo inquieto». In inglese l’immagine ci porta sì l’inquietudine dei tempi, ma anche e soprattutto suggerisce l’idea di uno squilibrio: non c’è niente che poggi su niente. È negato ogni appoggio. Neppure sulle reazioni istintive del corpo si può contare. Il sesso è «una vergogna», una prova imbarazzata, una performance avvilita, deludente. A cui Tony, che pure si sposerà  e avrà  una figlia, preferisce l’autoinganno.
A volerlo nobilitare, dietro questo personaggio-uomo potremmo evocare il fantasma del protagonista della bestia nella giungla, di Henry James: quel magnifico racconto in cui un uomo passa la vita ad aspettare che la vita accada. O più sommessamente viene alla mente l’attacco del buon soldato di Ford Madox Ford: «Questa è la storia più triste che abbia mai sentito». O ancora, sullo sfondo sentiamo risuonare atmosfere alla Philip Larkin, il poeta che più di altri ha descritto la desolazione del sesso. 
Barnes è apocalittico, allo stesso modo di Larkin: senza tuoni né fulmini né mondi che crollano. Ha la stessa percezione netta e chiara che un certo senso della vita è giunto al suo finale. Non c’è più vita. C’è solo rimorso. C’è solo la tristezza di una vita mancata. E, orrore!, in quell’avanzo di vita fatta di gesti coatti, di sesso coatto, di affetto coatto, dove tutto è rivolto al riparo, dove si crede di poter vivere nel rispetto delle norme, come potessero le norme, le convenzioni, assicurarci il bene; perfino lì, in quel resto beckettiano di vita, d’un tratto si scatena la malevolenza, la malignità , e si manifesta una cattiveria tacita e tenace, per quanto inconsapevole. Ecco la rivelazione che sconvolge la pace di Tony: ci si può proteggere dal “costo” della vita, ma non si sfugge alla forza nuda e cruda del male. Anche lui fa il male: quando viene a sapere che Veronica, dopo di lui, amoreggia con Adrian, ferito, si vendica. Scrive ai due una lettera feroce, li maledice. Poi dimentica. 
L’altra parola portante del romanzo è damage, danno, abuso. Da qualche parte qualcuno batte, percuote, violenta, fa male a qualcun altro…. È una sensazione imprecisa. L’ha provata a casa di Veronica, dove arriva a sospettare l’esistenza di una complicità  morbosa tra padre e figlia e fratello… Senza mettere a fuoco quel sentimento, Tony si adatta a una vita di paura. È un quieto terrore che prova, e amministra a suo modo: pulisce, ripulisce, ricicla. Niente effetti gotici. Niente deflagrazioni. 
Eppure, Barnes sa bene che nella tradizione del romanzo inglese c’è stato anche quel “tono” lì, quello sì, davvero apocalittico. Ma non prende quella strada. Preferisce un andamento da thriller, però in sordina, soffocato dalla “stupidità ” del personaggio. «Stupid, stupidity, stupidly» si ripetono più volte nel romanzo, per definire le azioni di Tony. Mentre Adrian, che è “intelligente”, si uccide a 22 anni. Si taglia le vene dei polsi. Un dubbio viene ora a Tony: e se chi si è tolto la vita, se ne fosse davvero fatto carico? È un dubbio devastante.
Sul perché di quel gesto il sessantenne Tony si arrovella, costretto a ciò da un insolito lascito da parte della madre di Veronica. La quale morendo destina a lui il diario di Adrian. Solo che Veronica l’ha bruciato, quel diario. Lasciando Tony nella sua ignoranza ottusa. Nella sua disperazione sorda. 
L’ho detto. Tony sbaglia fino all’ultimo, non l’azzecca fino alla fine, non capisce, non capirà  mai, gli ripete Veronica. Potrebbe arrivare a capire qualcosa immaginando, ma non lo fa: non immagina. Perché l’uomo maschio è stupido, stordito, maldestro? O non sarà  piuttosto che lo scrittore pretende troppo dal suo personaggio, architettando un finale troppo rocambolesco? Che non rivelo, naturalmente. Dico soltanto che il senso alla fine si fa misterioso, sfugge. Sì che ho addirittura pensato: non sarà  che Julian Barnes voglia imporci proprio questa frustrazione? Che voglia convincerci che non c’è senso alla fine? Che il senso è nel mentre, nel durante, nel frattempo?

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