Cartoline per il papa Quei mondi visti solo in fotografia

by Editore | 20 Maggio 2012 9:36

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CITTà€ DEL VATICANO – Li sfogliava, è bello pensare, all’ora dell’Angelus serale, alla luce delle candele, compiuti gli atti del governo pontificale. Con attenzione, curiosità , con malinconia forse, il papa guardava in figura il mondo che non poteva più vedere di persona, luoghi vicini e lontani, popoli familiari ed esotici, metropoli e villaggi. Forse il camerlengo glieli poggiava sulla scrivania, perché erano pesantissimi, quegli album spessi, dalle rilegature imbottite o scolpite, perfino in metallo sbalzato. E Pio IX era un papa anziano, ottantenne, affaticato dalla storia. «Prigioniero in Vaticano», si era dichiarato tale lui stesso, nel 1870, sdegnato ostaggio dell’«assurdità , o astuzia, o ludibrio» dei piemontesi usurpatori e delle loro ipocrite “Guarentigie”. Non era un’esagerazione polemica: da quel palazzo papa Mastai non uscì più, se non in un feretro, nel 1878. Primo pontefice infallibile, ma anche primo papa-re spodestato, derubato del potere temporale, esule volontario dall’urbe e dall’orbe. 
Non li aveva richiesti lui. Quegli album cominciarono ad arrivargli spontaneamente subito dopo la presa di Porta Pia, da tutto il mondo. L’affetto commosso e indignato della Cristianità  verso il pontefice maltrattato si scatenava in una valanga di lettere, omaggi, piccoli e grandi doni. E tantissime fotografie. Era un’arte giovane, nel 1870, la fotografia, appena trent’anni di vita. Frutto della modernità , teologicamente un po’ sospetto: al suo apparire, i tradizionalisti gridarono allo scandalo della superbia umana che «osa duplicare la Creazione». Un giocattolo maleducato e pericoloso, ci si potevano fabbricare immaginette licenziose, nella Roma risorgimentale circolavano fotomontaggi politici beffardi e osceni fatti diffondere, si sospettò, da Cavour stesso. 
Ma la Chiesa, dal concilio di Nicea in poi, ha sempre saputo maneggiare le immagini, e capì presto che la potenza della macchinetta capace di copiare il mondo poteva giovare alla fede. Gregorio XVI si era fatto dagherrotipare già  nel 1845, da un padre gesuita divenuto fotografo (sempre un passo avanti, i gesuiti). I missionari, precoci etnografi visuali, partivano armati di fotocamere. E la diffidenza iniziale svoltò in entusiasmo: se il giovane Mastai aveva scritto un trattatello sulla camera obscura, il suo successore al Soglio Leone XIII scrisse addirittura un sonetto latino in lode della fotografia: “O mira virtus ingenii, novumque monstrum!”.
Ed ecco: la cristianità , commossa al pensiero del papa recluso, fece ricorso proprio alla fotografia per restituirgli la vista sul mondo. Come se si fossero passati la voce, vescovi indiani e frati amazzonici, preti americani e suorine etiopi confezionarono con amore album di fotografie, scattate in proprio o ordinate a grandi studi (Bourne, Beato), svenandosi per farli sontuosi, e li spedirono al pontefice, perché i suoi occhi si riaprissero e la sua solitudine si consolasse. 
Cinquemila album per duecentomila immagini, una raccolta immensa, si sono accumulati per decenni, poi hanno riposato per un secolo nei meandri del Vaticano. Gli archivisti pontifici non sapevano bene che fare di questo materiale spurio, né libro né dipinto né gioiello: crearono un fondo apposito, gli “Indirizzi papali”. Da qui, oggi, gli album del pontefice prigioniero tornano alla luce. Oltre sette anni di lavoro sono stati necessari a Sandra Phillips, studiosa di San Francisco, esperta di fotografia documentaria, per identificarli, studiarli e descriverli uno per uno, e pubblicarne il meglio in un volume edito dal Vaticano in inglese, The Papal Collection of Photographs in the Vaticam Library.
Eccoli: gli album della cattività  occupano una lunga schiera di scaffali nel deposito della Biblioteca Apostolica Vaticana, dove il viceprefetto Ambrogio M. Piazzoni mi conduce e dove la curatrice del dipartimento delle stampe Barbara Jatta e l’archivista Anna Maria Voltan mi permettono con cautela di aprire le rilegature imponenti, di sfogliare le pagine decorate all’acquerello con amore certosino, le veline croccanti, e l’interminabile sequenza di brune stampe all’albumina. Il papa è prigioniero, ma l’evangelizzazione continua: questo gridano le immagini genuflesse ma orgogliose di chiesette di legno nel Minnesota, i ritratti di selvaggi cingalesi convertiti alla vera fede, i paesaggi di selve amazzoniche e vette himalayane dove forse per la prima volta risuonava la Parola del Dio cristiano. Ogni album ha un messaggio: documento dei progressi della fede, ma anche denuncia politica delle persecuzioni (negli album degli uniati ucraini, o degli armeni), reportage da guerre e terremoti come ex-voto a impetrare una benedizione, un’intercessione del Santo Padre per la sofferenza umana. Ma molti album nacquero semplicemente, dice Sandra Phillips, ancora affascinata da queste immagini dopo tanti anni di studio, «dal desiderio di far sapere al papa chiuso in Vaticano com’erano le montagne del Cile o le rovine dell’antica Cartagine, come si vestiva la gente in Cina o come si pregava a Goa, immagini che riuscirono a stabilire un incredibile dialogo tra quelle persone semplici e quell’osservatore lontano e imponente». 
Questa è la vera meraviglia di una collezione che nessuno ha progettato, che si è creata da sé, per corale devozione di un pianeta intero: traccia di un evento unico nella storia, durato pochi decenni, quando la cristianità  mise in posa se stessa e il mondo per offrirsi al papa. E attraverso di lui, per mostrarsi a Dio: per restituire, in fotografia, il Creato al Creatore.

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