Bossi & figli indagati Truffa da 18 milioni
MILANO – Alla fine quello che tutti si aspettavano è successo. Umberto Bossi e i suoi figli Riccardo e Renzo sono stati indagati dalla procura di Milano. Chi poteva ancora dubitare che Bossi non potesse non sapere almeno in parte quello che combinava il tesoriere più pazzo del mondo? Era impossibile che Francesco Belsito restasse ancora a lungo l’unico indagato della Lega. L’avviso di garanzia dei magistrati milanesi quindi non è certo un fulmine a ciel sereno. L’ultimo atto giudiziario che ha colpito direttamente il capo è arrivato dopo che l’inchiesta ha già cambiato i connotati del Carroccio. Quello che non avevano ancora osato i pm lo avevano già ampiamente capito gli elettori, e ancora prima i maroninani che hanno già vinto la faida interna al partito. E forse non è un caso che l’ultima resistenza di Bossi ad abbandonare l’idea di ricandidarsi alla carica di segretario sia caduta lunedì scorso, quando ormai il provvedimento della procura era atteso da un giorno all’altro nella sede di via Bellerio.
Adesso è ufficiale. Umberto Bossi è indagato per truffa ai danni dello stato in concorso con Belsito, mentre i figli Riccardo e Renzo sono indagati per appropriazione indebita per aver usato i soldi del partito per pagare le loro spese quotidiane: multe, benzina, fantomatiche lauree, hotel, automobili… In base ai documenti raccolti e alle testimonianze dello stesso Belsito e della responsabile amministrativa Nadia Dagrada, il Senatur «era consapevole della politica generale dei conti del partito». E’ stato lui a firmare il rendiconto «infedele» da 18 milioni di euro per la richiesta di rimborsi delle spese elettorali presentato nell’agosto 2011. Inoltre, Bossi senior sapeva anche dei soldi del partito destinati a soddisfare i vizi dei suoi figli. «Ne ho parlato con papà », scriveva Riccardo Bossi a Belsito nella sua richiesta di fondi trovata nella cassaforte dell’ex tesoriere. Secondo i magistrati, Riccardo e Renzo hanno percepito per quattro anni una «paghetta» mensile di 5 mila euro a cui però vanno aggiunte tutte le altre spese. Spese così ingenti da indurre la procura a rivolgersi ad una consulenza tecnica che dovrà stabilire l’ammontare complessivo della somma dirottata dalle casse della Lega alle tesche dei rampolli del capo.
I membri della «family» non sono i soli a finire sotto inchiesta. I pm Alfredo Robledo, Roberto Pellicano e Paolo Filippini stanno procedendo anche contro il senatore Piergiorgio Stiffoni. E’ accusato di peculato per aver usato per fini personali i fondi destinati al gruppo leghista in Senato. Il capogruppo Federico Bricolo, sentito come persona informata dei fatti, aveva detto che i «conti non tornavano». Infatti, mancano 500 mila euro. Gli atti relativi a Stiffoni però sono stati inviati per competenza al tribunale di Roma. E l’indagine non finisce qui. I magistrati stanno vagliando anche le posizioni della moglie di Bossi, Manuela Marrone, e della vicepresidente del Senato Rosi Mauro.
La reazione leghista come sempre è schizofrenica ma questa volta è anche piuttosto freddina. Un atteggiamento che fino a pochi mesi fa era impensabile. Si tende a minimizzare: «L’indagine è un atto dovuto che era nell’aria», dicono in via Bellerio. C’è chi ancora parla di complotto alla vigilia dei ballottaggi. Ma soprattutto si tenta di mettere in campo una difficile sintesi tra l’affetto per un uomo che ha fatto storia ma che è finito, e la voglia di voltare pagina senza troppi rimpianti, neanche per il grande capo. «Ho visto dare da Bossi alla Lega tutta la sua intelligenza – dice contrito Roberto Cadeltorli – tutto il suo genio politico, tutte quelle che erano le sue risorse, anche economiche, tutte le sue energie, al punto di essere arrivato ad un passo dalla morte, nulla potrà modificare la stima e l’affetto che provo per lui». Ma la linea la danno le parole gelide postate su facebook da Maroni. Poco prima della notizia dell’avviso di garanzia a Bossi, Maroni scriveva: «Per faccendieri, ladri e ciarlatani non c’è posto nella Lega del futuro». Poi ha glissato preferendo parlare dei comizi: «Senago, Meda, Tradate. Ci vuole un fisico bestiale». Solo a fine giornata ha detto: «Conosco Bossi da una vita e sono ultra certo della sua totale buona fede. Sono molto rattristato per lui. L’ho sentito ed era molto giù». Ma poi ha aggiunto: «Non ho mai pensato a complotti, ho fiducia nella procura di Milano e nel procuratore che conosco e stimo».
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MA QUEI SOLDI SONO UNA DROGA
Personalmente credo che sarebbe una buona idea, per Pier Luigi Bersani, accettare di restituire quei 45 milioni di cosiddetti “rimborsi elettorali”. E un buon esercizio mentale, per tutti noi, provare a immaginare un drastico taglio dei “costi della politica”: non solo del finanziamento pubblico, ma in generale del flusso di denaro da cui i partiti politici sono diventati dipendenti, come un tossico dipende dalla propria droga.
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