Biennale architettura giallo padiglione italia
ROMA Ecco la Biennale architettura nella versione di David Chipperfield: niente sfoggi narcisistici, niente passerella di star, le star ci sono (e sono anche tante, molte di più in questa tredicesima edizione che nelle precedenti), ma la vera star, sentenzia il direttore della rassegna che si aprirà a Venezia a fine agosto, è l’architettura. Un concetto ben definito e pronunciato che però non sembra scuotere i vertici del Ministero per i Beni culturali. A quattro mesi dall’apertura di una delle più importanti mostre del mondo, ancora non si sa chi curerà il Padiglione Italia. Nel 2008 Francesco Garofalo fu incaricato a febbraio. Per l’edizione del 2010 Luca Molinari seppe di essere stato designato a novembre del 2009. Paolo Baratta, presidente della Biennale, pur non avendo alcuna competenza nella nomina, ha assicurato che «nel giro di qualche giorno», il ministero indicherà un nome. Ma chiunque sarà , dovrà avere doti da centometrista.
Il titolo di questa edizione, «Common Ground» (presentata ieri nell’Aula magna della Facoltà di Architettura della Sapienza), racchiude più significati, segnalano Chipperfield e Baratta. Un’architettura che indichi un terreno comune, senza ridursi a una carrellata di progetti. Un’architettura, dice il progettista inglese, che ha di fronte un mondo il quale «sembra assecondare sempre più gli obiettivi del singolo», mentre «appare difficile definire l’idea di comunità , di città , di pubblico e di comune». Ma il terreno comune è anche il tessuto connettivo di diverse esperienze professionali, che superi «il cosmo-architettura formato da una serie di archistar sui loro piedistalli come i profumi ai duty-free degli aeroporti». Propositi tenaci, quelli di Chipperfield, che occorrerà misurare alla prova dei fatti, ma che corrispondono anche alle intenzioni di Baratta. Secondo il quale, in Italia, dove i costruttori si vantano di non pagare progettisti, manca «una domanda di qualità dell’architettura» che sia paragonabile a quella «del buon mangiare, del buon vestire, dell’arredamento e del design».
Da agosto a novembre fra i Giardini e l’Arsenale saranno in mostra 58 progetti di altrettanti architetti, artisti e critici che hanno chiamato a collaborare un’altra cinquantina di professionisti. Alcuni nomi: Alejandro Aravena, Peter Eisenman, Norman Foster, Steven Holl, Zaha Hadid, Herzog e De Meuron, Rafael Moneo, Rem Koolhaas, Ai Wei Wei, Kazuyo Sejima, Alvaro Siza. E gli italiani Cino Zucchi, Fulvio Irace, mentre progetti di Renzo Piano sono presentati da Fiona Scott.
55 sono i padiglioni di altri paesi. Ma quello italiano è ancora senza guida. Nei mesi scorsi il ministero ha mandato una serie di inviti, hanno risposto una decina fra architetti, curatori e storici (Luca Zevi, Massimo Carmassi, Fulvio Irace, Cino Zucchi, Claudia Conforti e Franco La Cecla, tra gli altri). Nel 2008 decise una commissione di cinque membri. Di cui ora non c’è traccia. E così si tirerà il collo fino all’ultimo.
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