Bankia in bilico chiede 19 miliardi i fondi esteri abbandonano l’euro

by Editore | 26 Maggio 2012 7:01

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NEW YORK – «Abbiamo liquidato l’ultimo euro che avevamo in portafoglio». L’annuncio arriva da Merk Investments, il più grande fondo americano specializzato in valute. Si accompagna a un’analisi impietosa: «Quello che sta accadendo nell’eurozona è dis-funzionale. Non c’è più nessun interlocutore di fronte alla Grecia». La fuga dall’euro è partita dagli investitori americani ma dilaga ovunque, coinvolgi grandi fondi obbligazionari inglesi e della stessa eurozona, tutti si “alleggeriscono” in gran fretta preparandosi al peggio. Molti, incluso Hermes Fund, riconoscono di avere assottigliato i loro investimenti in euro “vicino a quota zero”. La paura rimbalza negli Stati Uniti all’attenzione di un pubblico di massa. Conquista la prima pagina del New York Times dove spicca un’inchiesta sul “bank run” in Spagna: un inizio di assalto agli sportelli delle banche? «Per ora i ritiri dei risparmiatori sono solo dei rigagnoli, ma riflettono una paura più generale». 
La paura è la seguente: «Gli spagnoli potrebbero avere difficoltà  a recuperare i propri risparmi, se il sistema bancario fallisce e non viene salvato dallo Stato». Sempre ammesso che Madrid abbia le risorse sufficienti per un salvataggio di quelle dimensioni: la sola Bankia richiede 19 miliardi di euro per scampare al crac (il più grande salvataggio nella storia iberica), mentre scatta il downgrading di S&P per altri cinque istituti di credito spagnoli. Proprio Bankia è declassata a titolo “spazzatura”. Giunge l’appello della Catalonia per una garanzia del governo centrale ai debiti delle regioni. La Catalonia! Cioè la Lombardia spagnola, la regione più ricca e imprenditoriale. Si capisce perché negli Stati Uniti sia già  in primo piano lo scenario post-Grecia, che vede l’uscita della Spagna dall’euro come un evento al quale bisogna prepararsi. Senza Schadenfreude: qui pochi hanno motivo di compiacersi. Anzi. Il giudizio è durissimo, proprio nell’editoriale della direzione del New York Times che parte dal vertice-flop di mercoledì sera a Bruxelles: «Hanno fallito, ancora una volta. E adesso ciò che era inimmaginabile diventa verosimile». Cioè l’inizio di una disintegrazione dell’euro, che da questa parte dell’Atlantico è sinonimo di sventure per (quasi) tutti: «Il sistema finanziario è più interconnesso che mai, l’America è vulnerabile allo shock». Certo, ci sono quelli che ci guadagneranno, Wall Street ha sempre cercato di speculare anche sulle catastrofi, le posizioni ribassiste sull’euro stanno portando dei frutti visto che la moneta unica è scesa all’1,25 sul dollaro, mentre il biglietto verde segna i massimi dal 2010. 
Le grandi law firm, i mega-studi legali specializzati nel diritto d’affari internazionale, hanno scoperto un nuovo business: la consulenza alle multinazionali su come premunirsi prima e dopo l’uscita della Grecia (o di altri) dall’euro, come blindare i contratti, come proteggere i propri crediti in euro ed evitare che finiscano restituiti in dracme o pesetas. Al di là  degli “avvoltoi”, l’impatto più generale è drammatico: per l’economia reale Usa, oltre che per le chance di rielezione di Barack Obama. Il presidente, in tournée elettorale costante, è stato di nuovo interrogato sui suoi contatti con i leader europei, al G8 di Camp David, al vertice Nato di Chicago, e nei giorni successivi. La sua risposta è disarmante: «Abbiamo dato i nostri consigli, il Dipartimento del Tesoro segue la crisi ora per ora, l’attenzione è costante, alla fine i problemi devono risolverli loro». Traspare la frustrazione per la lentezza decisionale europea, la Casa Bianca è sulla stessa lunghezza d’onda dell’editoriale esasperato del New York Times. L’intransigenza “etica” di Angela Merkel sembra un atteggiamento d’altri tempi, il furore punitivo verso i vizi della Grecia e di altri popoli mediterranei ormai evoca curiose analogie con un passato remoto: come il “sacco di Costantinopoli” di 800 anni fa ad opera delle potenze vincitrici della Quarta Crociata (il paragone è dello storico Peter Frankopan di Oxford). 
La Germania viene vista come la grande profittatrice, con i suoi Bund ormai venduti a tasso zero, una vera e propria rendita finanziaria per Berlino che deriva dalle sofferenze altrui. Certo, anche i buoni del Tesoro Usa sono oggetto di una simile corsa agli acquisti, anch’essi bene-rifugio in tempi di paura. Il saldo netto è negativo per tutti, però, tanto più nel momento in cui scoppia la bolla immobiliare cinese, rallenta la crescita in India: ci sono tutti i segni di un “global slowdown”, una nuova frenata globale, avverte il Wall Street Journal.

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