by Editore | 30 Maggio 2012 6:55
NEW YORK – Nessun ristorante giapponese lo ammetterà mai, né potrà forse farci niente, ma c’è il rischio che nei loro prelibati sushi di tonno crudo, tagliati ad arte dagli chef e mangiati con le bacchette, si nascondano tracce degli isotopi radioattivi Cesio-137 e Cesio-134. All’origine della contaminazione c’è il disastro della centrale nucleare di Fukushima dopo lo tsunami del marzo 2011 e la fuoriuscita nei giorni successivi di forti dosi di radioattività , diecimila volte maggiori di quelli normali. Ma la vera sorpresa è che i tonni radioattivi siano stati trovati dall’altra parte dell’Oceano Pacifico, sulle coste meridionali della California, a 6mila miglia nautiche di distanza dal Giappone. «A conferma di quanto interconnesse siano le ecologie delle varie regioni del mondo», ha commentato Nicholas Fisher, un professore dell’università di Stony Brook che era nel team di ricercatori che ha condotto uno studio ad hoc e ne ha pubblicato ieri i risultati sugli annali della National academy of science.
Molto apprezzati per la loro qualità , i tonni del Pacifico “pinna blu” (da non confondersi con quelli dell’Atlantico e del Mediterraneo, che sono in via di estinzione), compiono delle lunghissime trasmigrazioni. Dal mare del Giappone seguono la corrente Kuroshio alla ricerca di zone più ricche di cibo nel Pacifico orientale. Poi, una volta ingrassati, riattraversano l’oceano per deporre le uova nel punto di partenza. Guidato da Daniel Madigan, professore di ecologia marina all’università di Stanford, il team di scienziati ha analizzato i tessuti di 15 tonni sui 6 chili ognuno pescati al largo di San Diego nell’agosto 2011, cioè quattro mesi dopo l’esplosione dei reattori di Fukushima. La presenza nei pesci del cesio-137, prodotto da armi e centrali nucleari, è risultata chiarissima, anche in relazione ad altri studi di quattro anni fa su esemplari della stessa specie (che invece non nascondevano isotopi radioattivi) e su altre specie di tonni non migratori. Il ritrovamento del cesio-134, che viene metabolizzato in due anni e mezzo, ha confermato invece il legame con l’incidente nei reattori di Fukushima.
Certo, le quantità di radiazioni scoperte dai ricercatori sono risultate molto inferiori (circa un decimo) di quelle considerate pericolose dalle autorità giapponesi. Ma, come ha detto giustamente Madigan in una intervista, «nessun consumatore ha voglia di mangiare tonno un po’ radioattivo»: tanto meno se è adagiato crudo su una polpettina di riso e venduto a quasi 20 euro al pezzo in un ristorante chic del Giappone, dove viene consumato circa l’80 per cento del tonno “pinna blu”.
La scoperta degli scienziati americani arricchisce il panorama delle conseguenze di lungo periodo (e di lungo raggio) della catastrofe giapponese. Già alcune settimane fa sulle coste dell’Alaska erano cominciati ad arrivare elettrodomestici, bambole, palloni e altri detriti risucchiati in mare dallo tsunami e trascinati dalle correnti. Alcune tracce radioattive erano già state trovate nel plancton e in piccoli pesci. Adesso è il turno dei tonni. E nel prossimo futuro il team di Madigan non solo ripeterà gli esperimenti sui tonni “pinna blu” del Pacifico che migreranno durante l’estate, ma analizzerà anche i tessuti di tartarughe, squali e uccelli marini. Il timore? Che altri viaggiatori marini possano essere stati contaminati, portando in giro per l’oceano quei pericolosi isotopi.
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