Anna Maria Gandini: “I miei cinquant’anni in libreria tra Linus, Flaiano e la Milano da bar”
«Dove posso trovare La signora Bovary?», chiese un cliente andando piuttosto di fretta. «Mi spiace, ma oggi c’è solo la signora Lepetit», fu la cortese risposta del fattorino mentre scaricava casse di libri al numero 2 di via Verdi. Per anni il dialogo surreale tra l’ignaro visitatore e l’improvvisato commesso fu il tormentone di quella che recentemente Fofi ha definito la “libreria in” di Milano. Delle tre signore della Milano Libri – fondata cinquant’anni fa – in sede è rimasta solo Anna Maria Gandini, figura snella e occhi ridenti che filtrano con ironia mezzo secolo di vita culturale italiana. È stata una delle prime libraie d’Italia, quando il mestiere era ancora saldamente in mani maschili. Insieme al marito Giovanni, ha dato inizio all’avventura di Linus. Viene oggi celebrata come l’Adrienne Monnier di casa nostra (copyright Cerati), è cresciuta in mezzo a Topor e Copi, ma tra i sodalizi più divertenti della sua vita evoca la sorellanza estiva con “mamma Lina” del bar Jamaica, «quando le mogli partivano in vacanza e i mariti si davano appuntamento alla Milano Libri o al leggendario locale di via Brera».
Prossima agli ottant’anni, Anna Maria si muove agile tra scale e soppalchi della “sua” libreria – in realtà della catena di Franco Lagiannella – dove tutto sembra emanare buon gusto e nitore intellettuale, dall’isola dei libri d’arte, di architettura e di design a quella dell’illustrazione e della moda, e poi tanta narrativa e saggistica, e più delle novità conquistano la prima fila i libri importanti, i titoli di catalogo che altrove non si vedono più. Ora fervono i preparativi per la festa dei cinquant’anni al Teatro Parenti, bisogna accontentare tutti, e il ceto colto milanese può essere molto esigente. «Non vedo l’ora che sia già stasera, tutto finito», dice lei stremata, o meglio fingendo di esserlo, mentre sistema la pila dei volumetti appena usciti da Licini con la storia della libreria.
Perché scelse di fare la libraia?
«In verità accadde per caso. Mettevano in vendita questa libreria vicino alla Scala e con due amiche – Vanna Vettori e Laura Lepetit – decisi di rilevarla. Mio padre – direttore del museo Poldi Pezzoli – dovette rinunciare alla sua segretaria: con lui mi divertivo molto, ma preferii correre questa nuova avventura».
Siete state tra le prime donne a guidare una libreria.
«Sì, le signore nostre amiche tutt’al più aprivano una boutique. E infatti eravamo osservate con curiosità . I rappresentanti delle case editrici tentavano di appiopparci orribili romanzi rosa, che noi respingevamo. Mi ricordo che uno si accomiatò: “A questa libreria non do più di sei mesi di vita”».
Ora festeggia il mezzo secolo.
«Facevamo un po’ paura, molto distanti dall’austera figura del libraio. Anche se già allora Giangiacomo Feltrinelli cominciava a svecchiare le librerie assumendo commesse in minigonna».
Eravate corteggiate?
«Non me ne accorgevo. Ora capita che qualche amico mi riveli dopo trent’anni grandi struggimenti del passato, ma chissà . Io sono sempre stata una donna fedele: al marito, al parrucchiere, al macellaio. Insomma, poco adatta a quel genere di cose».
Eravate rigorose, anche nell’assortimento dei libri.
«Siamo sempre andate controcorrente, promuovendo nostri personalissimi bestseller. Facemmo conoscere lo scrittore americano John Irving e ospitammo Art Spiegelman quando era agli esordi. Ma accontentavamo tutti, incluse le signore della media borghesia che in genere volevano romanzi d’amore, senza dirlo».
Volevano storie a lieto fine…
«…ma sotto sotto preferivano che finissero male: erano più appaganti. E poi quelle moine, “che per carità non ci siano situazioni scabrose – ma un po’ sì per favore”…».
In realtà , più che della middle class, siete state le libraie della buona società milanese.
«Anche Fofi ci ha accusato di snobismo. Ma cosa vuol dire? Se c’è un intellettuale snob, quello è Goffredo, un amico che adoro. Forse bisogna intendersi sull’accezione della parola. Ai salotti ho sempre preferito i caffè. Con Giovanni vedevamo gli amici al bar, dove giocavamo a boccette. Ci divertiva fare un salto al Santa Tecla o al Derby, che non sono popolari ma certo non radical-chic. Sa cosa?».
Cosa?
«Io faccio la bottegaia, e mi sono sempre sentita tale. Ho un rapporto concreto con i libri e con il danaro. Questo forse mi ha salvato».
Una volta, insieme al disegnatore Copi, lei e suo marito avete rischiato l’arresto.
«Accadde a Portofino, per un Capodanno. Copi sfoggiava una pelliccia di agnellino molto falsa, comprata per poche lire in via Solferino. Finita la cena, se ne andò per conto suo, lasciandomi questo cappottino imbarazzante. L’indomani la cittadina era in subbuglio. Una signora del bel mondo aveva sporto denuncia: qualcuno in ristorante aveva sostituito il suo breshvans con un falso. Ci siamo tutti ritrovati alla Polizia per lo scambio delle pellicce. E mentre noi ci profondevamo in mille scuse, Copi continuava a sostenere che la sua era molto più bella».
All’inizio fu tutto facile?
«Fummo aiutate, certo. Il padre di Vanna era il direttore amministrativo del Giorno. E quel pazzo di mio marito era figlio di Remo Gandini, un sarto famoso che non rappresentava certo l’alta società ma aveva molte relazioni. Eravamo privilegiate, sì, ma non mancavano le insicurezze».
Come si manifestavano?
«Venivano a trovarci editori illustri, da Valentino Bompiani a Vito Laterza. E arrivavano scrittori importanti come Leonardo Sciascia e Italo Calvino, Alberto Arbasino o Ennio Flaiano, che ci chiese di aprire una Roma Libri. Noi eravamo molto lusingate, ma ci sentivamo in soggezione. In fondo il nostro è un mestiere che richiede umiltà . Bisogna rimanere modesti. Quando Laura Lepetit ha smesso di esserlo ha fondato una casa editrice».
Foste anche le libraie delle donne, prima che aprisse la storica Libreria delle donne.
«Sì, grazie soprattutto a Laura. Facevamo pubblicità ai libri di Carla Lonzi e Betty Friedan, che con La mistica della femminilità ci invitò a smettere di essere angeli del focolare».
Lei in realtà non lo era mai stata.
«Con Giovanni avevo un rapporto molto speciale, forse anche per questo non riuscivo a capire tutta quella rabbia femminista. E poi interviene il senso dell’umorismo, che ridimensiona e relativizza. L’ironia mi ha aiutato molto anche per superare la morte di mio marito. Ma dobbiamo proprio parlare di vedovanza?».
Giovanni Gandini fu fondamentale per la nascita della rivista Linus.
«Sì, lui e i nostri amici maschi insistettero molto perché Milano Libri importasse i fumetti da tutto il mondo. Noi facemmo un po’ di resistenza, ma poi riuscimmo a ottenere i diritti per la traduzione italiana dei Peanuts di Schulz. Pensi che Umberto Eco, allora giovane editor della Bompiani, fu bruciato per pochi giorni. Ma non se la prese, tutt’altro. Ricordo le serate con Umberto provvisto di lente per tradurre le battute di Charlie Brown».
Il primo numero di Linus fu introdotto da una tavola rotonda tra Eco, Oreste del Buono ed Elio Vittorini, vero appassionato di fumetti.
«Sì, la riunione si svolse a casa nostra. Io ero quella che serviva il tè. Diciamo che nessuno di loro era interessato alla mia opinione. Ma non ho mai sofferto di complessi di inferiorità ».
Dalla vetrina di via Verdi, quando ha visto cambiare l’Italia?
«Quando sono rimasta senza interlocutori. Nelle case editrici non sapevo più con chi parlare. Avevo cominciato con persone come Roberto Cerati, poi mi sono ritrovata intrappolata in una rete di capi e capetti: tutti, o quasi, ignari di libri. Davvero non so come finiremo. Intanto però a cinquant’anni ci sono arrivata».
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