Analisi su tutti i resti umani trovati nella cripta del boss

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ROMA — Una scena mai vista: gli esperti della polizia scientifica, con le tute integrali bianche e il kit per il prelievo del Dna nelle valigette, entrano a passo svelto dentro un luogo sacro. Il portone di Sant’Apollinare è transennato. Schiere di agenti tengono alla larga giornalisti, teleoperatori, i furgoni con le antenne satellitari, passanti e turisti esterrefatti. «My God, what’s happening?». Nel cortile del grande complesso dell’Opus Dei è stata montata una tenda. Adesso dalla cripta, con qualche fatica perché il posto è angusto, la bara viene issata e portata all’esterno. Parte l’ordine: aprite il triplo sarcofago, uno in rame, uno in zinco e la cassa di legno. Basta uno sguardo: «Sì, è lui. E non ci sono altri scheletri…». Sollievo sui volti dei presenti: dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo al capo della Mobile Vittorio Rizzi, dagli anatomopatologi agli avvocati della vedova del defunto e della famiglia Orlandi (il fratello, Pietro, è stato ammesso ma tenuto a distanza).
Così, 22 anni dopo l’omicidio di Enrico De Pedis detto «Renatino» (e a 29 dalla scomparsa di Emanuela Orlandi), l’anomala sepoltura del capo della banda della Magliana in una importante basilica è stata definitivamente consegnata al passato. A una storia da non ripetere. La Procura, con la collaborazione del Vaticano, ha finalmente aperto la bara per verificare che dentro ci fosse davvero il temuto gangster che terrorizzò la capitale negli anni 80 e ricevette un tale privilegio in quanto «grande benefattore dei poveri», secondo l’allora rettore di Sant’Apollinare. 
Vestito blu e camicia bianca ingiallita: la salma era ben conservata, è stato sufficiente l’esame delle impronte digitali. Ma ecco che un altro scherzo beffardo incombe su queste spoglie: «Renatino» nei prossimi giorni verrà  sepolto al Verano ma in incognito, sotto falso nome. Troppa è la fama postuma del Dandi di «Romanzo criminale» per non temere profanazioni da parte di esagitati. Così ha deciso la moglie, Carla Di Giovanni, impiegata in un ente pubblico.
Conclusa l’ispezione più attesa, però, verso le 13 il lavoro, a sorpresa, è proseguito. Nella stessa cripta, oltre una parete abbattuta con il martello pneumatico, è infatti iniziata l’identificazione dell’intero ossario di Sant’Apollinare, che risale all’epoca pre-napoleonica, quando le chiese erano anche cimiteri. La scientifica e la squadra guidata da Cristina Cattaneo, una delle antropologhe forensi più famose d’Italia, analizzeranno i resti umani contenuti in tutte le 200 cassette. Ci vorrà  almeno una settimana. In cerca di cosa? E perché? È stato il procuratore capo, Giuseppe Pignatone, a chiarirlo: «L’attività  investigativa è finalizzata alla ricerca dei resti di Emanuela Orlandi». E qui il giallo sull’«indegno sepolcro» s’incrocia con quello della figlia del messo pontificio scomparsa nel 1983, proprio all’uscita di questa basilica che ospitava una scuola di musica. Una delle migliaia di ossa potrebbe essere di Emanuela? Nel dubbio verranno controllare tutte: quelle sicuramente ultracentenarie saranno scartate, ma se dovessero saltarne fuori di recenti, o di dubbia datazione, si farà  l’esame del Dna. Il collegamento De Pedis-Orlandi era emerso nel 2008 dopo le rivelazioni di una ex amante del boss, che aveva accusato «Renatino» di aver rapito e ucciso la ragazza quindicenne con la complicità  di monsignor Marcinkus, allora presidente dello Ior. Quella pista, battuta per anni, segna il passo. «La magistratura può contare sulla piena collaborazione delle autorità  ecclesiastiche», ha fatto sapere ieri padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa vaticana. Giallo riaperto con un nuovo impulso, dunque. «Oggi la speranza si è riaccesa», ha detto Pietro Orlandi all’uscita, nella piazza trasformata, da ore, in circo mediatico.


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