1 maggio. Investire sui giovani.

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Siamo nel bel mezzo di un passaggio d’epoca. Dalla tutela statuale (il lavoro è un diritto per tutti) all’autotutela che non si aspetta nulla dalla società  ma mette in moto energie e risorse perlopiù private o di comunità  ristrette.

In questo passaggio d’epoca chi è avvantaggiato? In primis chi ha la fortuna di avere il lavoro in casa. Già  a 15-16 anni vengono, per necessità , messi in movimento per aiutare nella gestione di bar, b&b, trattorie, spiagge, negozi, officine. Spesso questi ragazzi si trovano a servire i loro coetanei che stanno dall’altra parte del banco. I primi vengono educati a guadagnare/incassare ed i secondi a spendere. Ed è paradossale che siano proprio quest’ultimi e non i primi che sono stati inneggiati, da incauti economisti, a “salvatori della patria” in quanto gli unici, inconsci della crisi, sempre con il portafoglio in mano pronti a spendere e spandere aumentando, di conseguenza, la domanda.

Ma torniamo ai primi. Agli sgobboni. In tempo di trasformazione sociale la bottega aiuta ma non basta. Servono altre competenze, conoscenze (dalle lingue all’ hitech), una multiversatilità  che deriva da diverse esperienze, la capacità  di risolvere i problemi oltre il settorialismo fordista. Insomma una marcia in più rispetto all’abitudine, già  innata, di faticare.

Si deve passare dall’era del “ghe pense mi” a qualcosa di collettivo: “fatico ma so che non sono il solo”. Mi sento parte di un sogno più grande.

Maria Montessori, a tal proposito, aveva capito già  alla fine dell’ottocento che la società  moderna è salda quando è un insieme di persone libere, capaci di scegliere, di battersi per il meglio e di costruire – assieme – qualcosa di duraturo. Ciò va oltre la capacità  di affrontare le avversità , e, semplicemente, di lavorare duro. Perché una cosa è portare pietre per far su muri ed un’altra è sentirsi parte di una storia che costruisce una cattedrale.

Ben inteso, somari a parte, l’abitudine a faticare la si acquisisce anche e soprattutto a scuola. Non v’è nulla di più normale per i ragazzi dell’Africa nera rurale raccoglier legna in foresta ed acqua potabile al fiume sia prima che dopo scuola. Alcuno protesta. Tutt’altro delle scenate per portare un sacco di spazzatura sino al cassonetto sottocasa che caratterizza le società  dell’opulenza. Italia compresa. Ma la voglia di riscatto di certi paesi viene nel sentirsi parte di un sogno collettivo. Ed è forse per questo che i Pil a due cifre sono soprattutto nei paesi che hanno educato, con tutte le tragedie incluse, per decenni al collettivismo: dalla Tanzania alla Serbia passando per le tigri asiatiche. Ed è stato proprio quest’abitudine a “far squadra” che ha permesso, in assenza di ammortizzatori sociali, a più di 200 collettivi operai in Argentina di occupare e riavviare le loro fabbriche.

Nel nostro bel paesesecondo Bankitalia, i “Neet” (giovani tra i 15 e i 29 anni not in education, employment, training) sono 2,2 milioni, pari al 23,4% della popolazione in quella fascia d’età . Quasi un ragazzo su quattro. Questi non hanno mai avuto la fortuna di lavorare e, quindi, di sentirsi parte di una squadra per affrontare assieme le difficoltà . Non sanno che, oggi, gli imprenditori preferiscono vedere nel CV un tirocinio in fabbrica che un master ed al secondo tentativo di “ricerca lavoro” s’arrendono. Di tutt’altra pasta sembrano essere i giovani degli hub che credono nell’innovazione attraverso la collaborazione. Qui si sogna, si condivide, si realizza.

Ma è proprio il sogno la chiave di svolta. Cosa differenzia un giovane di un paese emergente da un coetaneo opulente? Ho avuto la fortuna di frequentare diverse classi sia dei sud che dei paesi dell’est e se chiedete loro cosa vogliono fare da grandi vedrete le mani svettare verso il cielo. Bene. Ponete la stessa domanda ai loro coetanei nei paesi opulenti.

Alcuni governi del Nord Europa stanno mettendo in campo contromisure politiche per motivare una gioventù già  stanca. In Svezia, per esempio, i bidelli si occupano sempre più delle parti comuni mentre i ragazzi sono tenuti a pulire le classi da loro stessi frequentate. Lo stesso dicasi per gli spogliatoi. In Norvegia hanno compreso che l’immigrazione di giovani stagionali in patria per le “vacanze” favorisce la mescolanza e dà  la sveglia ai propri giovani “nati stanchi”. In Danimarca si riconosce nel curricula scolastici chi va a lavorare nelle fattorie a palar letame. Vale tanto quanto un buon voto di chimica.

Anche in Italia vi sono degli esperimenti interessanti. In Umbriaper esempio, i giovani, accompagnati da un tutor, puliscono i parchi, pitturano le panchine, svuotano i cestini per alcune settimane. Il prendersi cura del “bene comune” fa prevenire il vandalismo. In Trentino le Acli hanno promosso un progetto simile e la domanda ha superato di gran lunga l’offerta.

Ed è per questo motivo che riteniamo drammatico il taglio al “servizio civile” ove a fronte di un posto per 12 mesi a 480 euro al sud d’Italia vi sono 80 domande. Se lo Stato non da ai giovani un’opportunità  lo farà  la mafia sempre pronta a battere lo Stato sul terreno del “lavoro”. Ma la svolta siamo noi “privato sociale” che dovremmo battere sia la mafia che lo Stato su questo terreno. Migliaia di parrocchie, centinaia di circoli delle più grandi associazioni italiane, centinaia di cooperative sociali e non solo. Anziché investire in “strutture” perché non investiamo in persone? Diamo ai giovani la possibilità  d’impegnarsi.


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