Urss, il continente scomparso
Siamo malati di anniversari. Se non ci fossero, per i giornali, bisognerebbe inventarli. E infatti spesso se ne inventano. E altrettanto spesso se ne nascondono. E’ passato tutto intero il 2011 e nessuno, o quasi, si è ricordato che, esattamente vent’anni prima, era accaduto quell’evento che si chiama «fine dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”. Si può non avere simpatia per il presidente Putin e in effetti non ne suscita in gran quantità , ma ha detto almeno una volta la cosa essenziale e cioè che la caduta dell’Urss è stata la più grande catastrofe geopolitica del Novecento. Le futili vicende che abbiamo vissuto da allora, mascherate da improbabili accadimenti epocali, ce lo confermano. Ecco un libro che ci riporta, saltando indietro nel tempo che conta, a una vicenda, «un esperimento», si dice, che ha fatto storia e che non a caso alla sua conclusione ha fatto parlare di fine della Storia. Sto parlando di Rita di Leo, L’esperimento profano, sottotitolo eloquente Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse, Citoyens, Roma 2012.
È un testo da leggere, impossibile da riassumere. E’ un testo breve, sintetico, con rimandi ad altri approfondimenti analitici della stessa autrice, dimostrazioni empiriche delle tesi teorico-storiche qui presenti, che varrebbe la pena di veder presto pubblicati a parte. Una narrazione, che non si può raccontare di nuovo, si può solo ascoltare. Ne parlo, usando le stesse frasi e parole del libro. 1917-1991: ecco date che stanno in piedi da sole, come corpi in carne ed ossa, non fantasmi evocati dalle pratiche magiche della comunicazione mediatica. Scelgo di dare subito conto, con una citazione di esempio, dello stile e del tono del discorso. A metà libro: «Dagli anni Cinquanta in poi, in occasione degli incontri internazionali, le facce popolari dei segretari generali del partito comunista sovietico e le loro ‘non buone maniere’ mostrarono agli occhi del mondo che la seconda potenza strategico-militare aveva al governo uomini che venivano dal popolo. Non che il popolo fosse al potere, come affermerà l’ultimo programma del partito ( 1986 ) ma che la leadership sovietica, o nomenklatura, era figlia o nipote di operai e contadini. Ne conseguiva che la rivoluzione anticapitalistica del 1917 aveva realizzato il rovesciamento sociale promesso». Fino al 1989 è stata questa l’immagine dominante negli occhi di amici e di nemici. Per smontare questa immagine – dice di Leo – «era al lavoro un esercito di studiosi impegnato in un apposito settore di ricerche e di analisi storiche; la sovietologia, che è poi sparita insieme al muro di Berlino».
Sì, perché da parte nemica si è studiata l’Unione Sovietica fino a che c’era da combatterla. Poi non più. Da parte amica invece non la si è studiata né quando esisteva bastando allora glorificarla, né quando è morta dovendo ora maledirla. Bisogna dire che Rita di Leo l’ha studiata allora e la studia ora. Come tutte le persone che dicono il vero non viene creduta. Si può forse convincere il mainstream? Se ne può solo essere convinti. Ma chi vorrà cominciare a capire come è andata quella storia sempre letta sotto gli schemi dell’ortodossia, dovrà ripartire da questi studi eretici: fatti per scelta politica, «più da militante sconfitta che da studiosa accademica».
I rovesciamenti del senso comune intellettuale sono rintracciabili ad apertura di pagina. Tre capitoli, tre tesi-ribaltone. 1. Iniziò con i filosofi-re; 2. Continuò con la gestione popolare; 3. Fallì con il mercato. Chi sono i filosofi-re? Sono i «rivoluzionari di professione», che presero su di sé le coordinate teoriche, i bisogni ideali e le necessità pratiche dell’esperimento. Si inventarono il «principio di regolazione», dettando canoni di comportamento per tutti gli ambiti, del lavoro e della vita, non fidandosi del libero movimento degli spiriti animali, avendo colto con Marx nell’esperimento opposto, quello del capitalismo, in quel libero movimento l’effettivo esercizio di un dominio di classe. Erano degli intellettuali utopisti, che puntavano, con un volontarismo massimalista, alla realizzazione del progetto politico di una società etico-razionale ispirata ai principi del socialismo-comunismo. Diventarono «politici di professione che da socialdemocratici legarono il governo al partito, e da seguaci di Lenin la politica al potere». Erano infatti una creazione di Lenin, «l’intellettuale capace di trasformare una rivolta di popolo in una rivoluzione…. Il capo di governo deciso a porre fine a una guerra invisa al paese senza preoccuparsi delle molte concessioni al potere, il crudele capo-popolo che avallò i più crudeli atti di giustizialismo popolare, il politico di scuola socialdemocratica in grado di inventarsi l’economia mista della Nep, lo statista con cultura prussiana preoccupato per l’incompetenza del suo partito a fronte del governo del paese. Rispetto agli intellettuali e ai politici che lo affiancarono prima e dopo la rivoluzione, nessuno fu capace di svolgere così tanti ruoli diversi e contraddittori. Gli altri si distinsero ciascuno in una propria funzione». Divennero politici pianificatori e in seguito addetti all’ideologia sovietica. Ebbero il maggiore impatto sul paese negli anni Venti e Trenta. Sono passati alla storia come la vecchia guardia bolscevica annientata da Stalin prima che iniziassero gli anni Quaranta.
A quel punto l’ostracismo verso gli specialisti ex-borghesi si era da tempo realizzato. Già nel 1924, Stalin celebrava la morte di Lenin promuovendo l’iscrizione al partito di una «leva operaia», premessa all’assunzione di ruoli dirigenti da parte di lavoratori manuali. «Al di là delle dichiarazioni ufficiali di continuità , Stalin si contrappose a Lenin nel puntare sulla capacità dei dirigenti provenienti dal popolo di rendersi autonomi dai dirigenti intellettuali». Una tesi forte di Rita di Leo, da anni coltivata e ribadita, è che quello che lei chiama «l’operaismo di Stalin», senza mai diventare populismo, andò a concludersi, e a realizzarsi – e questo fu infatti quello che si è riconosciuto come socialismo realizzato – nella teoria e nella pratica della «gestione popolare»: «la rete dei rapporti, instauratasi dagli anni Cinquanta-Sessanta in poi, in nome dell’ideologia del popolo sovrano e per volontà del partito comunista al governo». Si dice qui che fu Khrushchev a gettare i primi semi, ma fu Brezhnev ad arare il terreno. «La gestione popolare era ciò che il paese voleva dopo le lotte di classe e lo stato di eccezione, era la reazione contro una società rigidamente stratificata da gerarchie rigidamente ideologiche. Erano queste le gerarchie fissate dagli intellettuali utopisti, contro i quali nel tempo si formò un intreccio di interessi tra il popolo minuto che voleva vivere meglio e gli uomini che controllavano le ricchezze del paese e volevano deciderne senza dipendere dal potere politico centrale». Diventava così possibile la trasformazione della «dittatura del proletariato» nello «Stato di tutto il popolo». Il 1956 viene letto qui come il passaggio dalla vecchia alla nuova élite. In effetti la morte di Stalin – il libro fissa una scansione strategica, 1917-1954, 1954-1991 – viene avanti sempre di più come il grande spartiacque tra una sorta di due socialismi. Leggo così questo racconto, forse forzandolo: da un socialismo che marciava teoricamente verso il comunismo a un socialismo che retrocedeva praticamente verso il capitalismo.
«Sin dai primordi il partito era diviso tra i compiti della politica e le esigenze dell’economia. Il compito della politica fu spingere ciascuno a prendere parte alla guerra di classe come vincitore o come vittima». In parallelo vi erano gli obblighi dell’economia, totalizzante come nessun altro mondo, secondo quanto abbiamo appreso e apprendiamo ogni giorno. Questi obblighi assorbirono il partito in modo via via crescente. Il progetto originario, appunto teorico, era far nascere «l’uomo nuovo», l’uomo del socialismo, svincolato, non per natura ma per storia, da quegli obblighi. La prassi quotidiana chiedeva la realizzazione del piano, l’esecuzione delle norme, il lavoro d’assalto, sul modello dell’eroe civile Stakhanov. «L’uomo socialista» diventava «l’uomo sovietico». «L’economia funzionava senza mercato dei capitali e dei mezzi di produzione ma, come nelle altre società industriali, l’uomo divenne funzione della crescita economica, dell’industrializzazione accelerata, dell’urbanizzazione del paese. Nessuno cambiò tale rapporto. Nessuno nemmeno ipotizzò questo cambiamento». L’esperimento aveva previsto e realizzato il rovesciamento dell’ordine sociale, con gli ex operai al posto dei direttori borghesi. Ma non solo il compito rimaneva lo stesso, far funzionare al meglio la fabbrica, rimaneva la stessa l’esecuzione generale del compito, la classe operaia in realtà appendice della macchina economica. Giocava qui, accanto alla cultura economicistica del marxismo e della socialdemocrazia, la condizione particolare del continente russo, che il giovane Lenin aveva ben saggiato in quella magistrale opera che è Lo sviluppo del capitalismo in Russia. La crisi del ’29 sembrò confermare la validità dell’intero esperimento, con la vittoria, che sembrava strategica, del piano sul mercato. Ma, ecco, «se il successo stava nell’economia e non nella politica, se l’obiettivo prioritario non stava tanto nel creare una società diversa quanto nel crescere più del capitalismo, la conseguenza fu il protagonismo del mondo dell’economia, con i suoi attori e i suoi problemi». I tempi dell’esperimento cominciarono ad essere scanditi dai piani quinquennali. «Fare politica significò innanzitutto realizzare il piano». Insomma, all’inizio, fu la politica al posto di comando. «Quando, con la pianificazione, fabbriche, città e campagne furono l’impegno quotidiano del partito al governo, allora politica ed economia divennero una cosa sola».
Alla fine degli anni Settanta la situazione era cambiata – dice di Leo – oltre i sogni del più pervicace avversario dell’Urss. Si erano invertite le priorità , con la politica-progetto ridotta allo stato di ideologia e il mondo dell’economia salito al vero posto di comando. L’élite sovietica subiva un destino imprevisto. A vincere sul campo fu l’élite economica. A uscirne sconfitto fu il partito, la sua organizzazione, i suoi 19 milioni di membri. E insieme ne uscì sconfitto il patto originario tra il partito e la classe operaia. «I due eventi topici furono il 27 aprile 1989, quando Gorbachev espulse i comitati del partito dalle fabbriche, e il 19 agosto 1990, quando un piccolo gruppo di alti funzionari del partito andò a trovare in vacanza l’ultimo segretario generale del Pcus, sempre lo stesso Gorbachev, nell’intento di fargli cambiare la sua strategia di logoramento del potere sovietico. Non ci riuscirono e furono additati al paese e al mondo come responsabili di un colpo di Stato, colpevoli di bloccare il cambiamento in corso nell’Urss. E così effettivamente era, solo che dal loro punto di vista si trattava di difendere la sopravvivenza dell’Urss. L’anno dopo l’Urss sparì dalle carte geografiche. Nella nuova Russia, insieme al successore di Gorbachev, il presidente Boris Yeltsin, andarono finalmente e ufficialmente al potere gli alti quadri dei ministeri ex sovietici e dei grandi conglomerati di esportazione dei settori strategici (energia, militare, metallurgia, legname): grazie ai proventi delle privatizzazioni, e ai giochi sui differenziali tra prezzi domestici e internazionali, essi divennero i proprietari dei maggiori gruppi finanziario-industriali. Essi avevano per la produzione manifatturiera, così peculiare alla vicenda sovietica, la medesima ripulsa che avevano per il partito comunista».
Ho scelto uno, e un solo, filo di lettura di questo denso libretto. Avverto che non è l’unico. Ci sono altri fili, a cui, tra l’altro l’autrice è particolarmente attenta. La vicenda, ad esempio, degli intellettuali, del loro rapporto, controverso ma necessario, con il potere, nell’esperimento sovietico particolarmente significativo. Approfondita, nel testo, la questione delle élites, che è emersa qui, ma chiederebbe un più lungo discorso. La chiave di lettura della «gestione popolare» da Khrushchev a Brezhnev. E il grande tema del sistema politico, tra Soviet, Partito e Stato, un’immensa innovazione irrisolta, una delle cause di fondo che ha portato al fallimento dell’esperimento. Ho scelto il tema del lavoro, lavoro manuale, e politica, politica organizzata, perché penso che sia ancora questo il problema dei problemi, al di là della chiacchiera sul niente che ci affligge. Questo è un libro su temi strategici che va letto dentro una contingenza, quella attuale. Una lettura sempre difficile. Ripercorrere controcorrente il fiume dell’esperimento sovietico, oggi è un compito politico. Se non si capisce lì, non si capisce qui.
L’esperimento sovietico si è piazzato al centro del Novecento e lo ha definitivamente segnato. Batti e ribatti, alla fine ho capito che l’antinovecentismo è sostanzialmente una forma, la più inconsapevolmente diffusa, di anticomunismo. Indipendentemente dal merito dei fatti, in realtà non si sopporta che quella cosa lì ci sia stata. Per cui anche parlarne male è rischioso. Conviene non parlarne affatto, finché come di Atlantide si favoleggerà che ci fu, ma senza sapere dove come e quando. I nostri avversari l’hanno capito, e molti nostri amici, ripeto senza saperlo, gli danno una mano: il modo più sicuro per tenere in piedi questo instabile loro presente è cancellare ogni traccia di memoria alternativa. Oggi stiamo vivendo lo stadio avanzato, maturo, prossimo, a mio parere, a una soluzione finale a livello mondo, di una storica, classica, lotta di classe tra politica ed economia. Lotta di classe, non altro. Schierarsi sull’uno o sull’altro fronte è la prima decisione da prendere. Poi la politica si può riformare, ridefinire, riorganizzare e quant’altro, ma, pensiamoci bene, ogni gesto, ogni parola, ogni iniziativa, che in qualche modo contribuisca a una sua delegittimazione, è un danno arrecato alle persone cha vivono nel basso della società e che hanno quella sola arma di difesa e di attacco. L’esperimento raccontato da Rita di Leo “diventò” profano, ma il suo atto di nascita, questa è una mia strana idea, fu qualcosa di sacro, anche nella tradizione della santa Russia. E questo perché il Palazzo – d’Inverno -, i bolscevichi non lo criticarono, lo conquistarono.
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