Uno spettro verde si aggira per l’Europa
Sulla carta è la vera «rivoluzione» dell’Europa a 27. Una direttiva che dà energia alla sostenibilità economica, cambia mercato e produzione, tutela i cittadini-consumatori. È molto più del protocollo di Kyoto in versione Ue: contiene l’ambizione di ripensare il futuro del continente in chiave green e, dunque, inciderà anche in Italia ben più drasticamente delle «quote latte» o degli stessi finanziamenti alle regioni.
L’11 aprile si apre il giro negoziale fra Parlamento, Consiglio e Commissione: sul tavolo il testo stilato il 28 febbraio con i 18 emendamenti di compromesso (erano 1.810 all’inizio). Definisce i parametri dell’approvvigionamento e della fornitura di energia. Riguarda tutti i settori, con la sola eccezione dei trasporti. Comporta l’abrogazione di due precedenti direttive europee: la numero 8 del 2004 sulla cogenerazione e la numero 32 del 2006 sull’efficienza degli usi finali e dei servizi energetici. Insomma, sarà la cornice politico-economica in cui si dovrà disegnare l’Europa 2020.
Alla vigilia della trattativa finale, Stati divisi con il paradosso del governo Merkel incapace di scegliere fra la linea del ministro dell’Ambiente e quella del ministro delle Finanze. A sostegno della nuova direttiva, già schierati Danimarca, Belgio, Irlanda e Portogallo. Il governo Monti? Sembra un po’ distratto. Così a Bruxelles possono lavorare più sereni i soliti berlusconiani: Antonio Tajani, vice presidente della commissione europea, e Lia Sartori al vertice della commissione industria del Parlamento.
La partita. Parola d’ordine: efficienza energetica. Obiettivo categorico: tagliare i 400 miliardi di euro di «bolletta» dell’Ue, creando 400 mila posti di lavoro e abbattendo le emissioni di CO2. Tutto con un’unica «manovra», vincolante, per tutti. Risparmiare il 20% di energia entro il 2020.
«Un successo obbligato» avvertono a Bruxelles. Anche per l’Italia, che dovrà mettere da parte 49 milioni di tonnellate di petrolio equivalente e ripensare lo sviluppo edilizio. Un vero e proprio new deal: dai contatori “intelligenti” alla società elettrica che invita a consumare meno energia.
Nel mirino – soprattutto – la voracità del mattone, pilastro della vecchia economia. «Gli edifici sono responsabili del 40% del consumo comunitario ed emettono il 36% del totale delle emissioni di gas-serra dell’Europa» spiega Claude Turmes, eurodeputato lussemburghese dei Verdi e “padre” della direttiva. Il provvedimento è più che strategico. «L’Europa dipende dagli Stati petroliferi e ha scarsa influenza nel determinare il prezzo di gas e olio combustibile. Di conseguenza trasferisce una parte consistente della sua ricchezza ai Paesi fornitori di energia. Con l’efficienza, gli Stati dell’Ue arriveranno a risparmiare 50 miliardi di euro all’anno» è il ragionamento “matematico” dei membri della commissione.
Nuove regole. Si parte dagli edifici pubblici. Dal 1 gennaio 2014, scatta l’obbligo comunitario di rinnovare, dal punto di vista energetico, il 2,5% (media nazionale) degli immobili pubblici fabbricati con superficie complessiva di oltre 250 metri quadri, nel caso risultino al di sotto dei requisiti minimi di rendimento energetico. Obbligatorio, sempre dal 2014, il censimento di tutti gli stabili di queste dimensioni.
La direttiva dettaglia poi i “compiti” per i fornitori di energia: dovranno contabilizzare il taglio di almeno l’1,5% del fatturato annuo ed emettere bollette più trasparenti anche via internet e senza aggravi. Ovvero spingere i clienti a consumare di meno e meglio. Un paradosso? Mica tanto: «In Germania, dal 2006 al 2011, 6 miliardi di euro di fondi federali, 27 miliardi di cheap loans e 54 miliardi di investimenti privati sono defluiti nel settore dell’efficienza energetica. Il ritorno per il budget dello Stato è stato di 4 euro per ogni euro di intervento pubblico» sottolinea Turmes.
Spetta all’inglese Philip Lowe, direttore generale del Dipartimento Energia della Commissione europea, contabilizzare l’impatto complessivo: «Significa risparmiare 368 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio all’anno». Tradotto, vuol dire poter fare a meno di un migliaio di centrali a carbone. O rinunciare a “piantare” metà degli impianti eolici. «Senza contare che raggiungendo il 20% entro 8 anni si riuscirà a creare quasi mezzo milione di nuovi posti di lavoro nell’Ue» aggiunge il direttore del Dg-Energy. E sul finanziamento del settore pronostica: «Vista la bravura dimostrata inventando i più ingegnosi prodotti finanziari, gli istituti di credito non dovrebbero avere difficoltà a introdurre analoghi strumenti nel settore dell’efficienza energetica».
Nucleare. Conti che fanno tremare i polsi ai lobbisti (dichiarati) del nucleare, che affollano i seminari europei sull’energia. L’ “equazione” di Lowe è imbarazzante: «Gli oltre 170 impianti nucleari nei 27 Stati producono appena il 13% dell’energia totale dell’Europa. Molto meno di quanto frutterebbe l’applicazione del target del 20% dell’efficienza energetica entro il 2020». A Bruxelles non tutti si allineano. Miloslav Ransdorf, eurodeputato della Repubblica Ceca (Sinistra unita) e relatore ombra della direttiva, afferma: «Per noi, rinunciare al nucleare è semplicemente impossibile». Fiorello Provera, eurodeputato della Lega Nord, altro shadow relator, scandisce: «Per I’Italia, che ha un sistema produttivo manifatturiero fondato sulla trasformazione delle materie prime importate, l’efficienza energetica rappresenta una necessità assoluta».
Conti e trucchi. Nel calcolo del risparmio energetico fino al 2020, è stato escluso il settore dei trasporti. Le lobby, italiane e non, sognano di «depotenziare» la nuova direttiva scorporando anche il fabbisogno delle industrie. L’Austria – formalmente favorevole – vuol mettere già tutti i risparmi effettuati con la precedente normativa sul piatto della bilancia 2014-2020. La Francia è obnubilata dalla campagna elettorale presidenziale tanto da cambiare posizione kafkianamente a seconda dell’interlocutore. Perfino la Germania non governa una posizione unica sulla direttiva. La Polonia contesta la strategia Ue sul cambiamento climatico, eppure sostiene il risparmio energetico. E il governo conservatore inglese ha già annunciato l’appoggio all’articolo 6, quello che pretende dalle società energetiche un risparmio dell’1,5% annuo sui consumi finali.
Gioco a tre. Comincia dopo Pasqua e difficilmente si concluderà entro la scandenza del mandato presidenziale della Danimarca. Il trilogo (cioè il dialogo a tre fra i poteri istituzionali di Bruxelles) si prospetta lungo, delicato e cruciale. In gioco troppi interessi sull’energia e sul futuro dell’Europa che nel 2020 avrà confini ancora più larghi a Est.
«Ora il Consiglio dell’Unione europea dovrà definire la propria posizione e negoziare con Turmes in rappresentanza del Parlamento e con la Commissione Barroso l’accordo finale. Finora, la presidenza di turno danese auspica di raggiungerlo entro giugno» riassume Monica Frassoni, presidente dell’European alliance to save energy.
Come molti altri a Bruxelles teme l’abuso della possibilità per i 27 Stati Ue di «misure alternative o complementari» per centrare l’obiettivo della riduzione entro il 2020. Una delle poche concrete “scappatoie” contenute nella direttiva di Turmes. «Effettivamente si tratta di un opt-out che potrebbe indebolire l’impatto generale della misura» spiega l’ex eurodeputata dei Verdi.
«Recinto». Al Parlamento europeo credono poco alle coincidenze: in testa ai consumi di petrolio e gas ci sono proprio (quasi) tutti i Paesi nel tunnel del debito pubblico e della crisi finanziaria. Sono i Piigs che divorano anche le risorse energetiche. Nell’ordine: Irlanda, Italia, Grecia e Portogallo.
«Non è un caso. Anzi. Semmai, la prova che l’efficienza energetica è davvero l’unica strada praticabile per questi Paesi, che possono così liberare risorse da destinare alla crescita e lo sviluppo». È quanto si scandisce, ormai apertamente, nei panel della Commissione industria.
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