Un’intossicazione chiamata Anvur

by Editore | 28 Aprile 2012 9:59

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Questa graduatoria determina il punteggio delle pubblicazioni degli studiosi nei concorsi universitari e, indirettamente, anche la qualità  dei singoli dipartimenti stabilendo il valore delle pubblicazioni che essi producono. Recentemente l’Anvur, che può appropriarsi di un potere indiretto ma decisivo sui destini della ricerca universitaria in Italia, ha stilato una classifica delle riviste di italanistica, che ha lasciato molti studiosi perplessi per diversi e evidenti arbitri commessi nella sua redazione. Giulio Ferroni ha dichiarato la sua perplessità  sulla funzione stessa di Anvur: «Tutto è assimilato al pensiero unico economico-finanziario, si cerca di riprodurre il mondo delle agenzie di rating». In effetti questa Standard & Poor’s della cultura italiana fa parte di una trasformazione progressiva (e in gran parte silenziosa) del nostro rapporto con la vita che nel nome di una presunta obiettività  deforma il nostro modo di sentire e di essere. La qualità  di uno studio può essere valutata solo attraverso la sua lettura e non indirettamente attraverso il rango della rivista in cui è stato pubblicato. Il rating delle riviste racchiude il pericolo dell’arbitrio esercitato dalle agenzie di rating finanziario che hanno certificato con la tripla A modalità  di investimento “tossiche”, contribuendo grandemente alla più grande crisi economica dal 1929. L’intossicazione della vita culturale e di conseguenza della nostra vita psichica è l’unico e nefasto contributo che le strutture come Anvur possono dare. Il valore delle riviste, che deriva dalla qualità  degli articoli che ospitano, serve a invogliarne la lettura da parte del pubblico cui si rivolgono. Il loro rapporto con i lettori non è astratto, mediato da un parere vincolante di esperti, ma è un legame vivo fatto del piacere di leggere. Si sta facendo strada un’ideologia dell’obiettività  che cerca di imporsi come unico metodo credibile di validazione della qualità  della nostra esperienza. Proposta in questi termini, l’obiettività  diventa un arbitrio: l’imposizione di un punto visto di vista parziale legittimato solo da rapporti di forza. Se si abbandona la valutazione soggettiva, l’incontro personale ed emotivamente significativo con l’oggetto del godimento, culturale o erotico che sia, la valutazione obiettiva crolla miseramente (come un albero senza radici o un edificio senza fondamenta). La produzione di merci da vendere, a prescindere dalla possibilità  reale di un loro uso e godimento, secondo le regole della pubblicità  occulta chiamata valutazione obiettiva (a cui la pubblicità  palese fa da copertura), ha trasformato il nostro rapporto con gli oggetti desiderati. La cosa importante è il loro possesso e/o consumo non il loro uso. Il piacere dell’uso diventa piacere di proprietà  o di eccitazione senza coinvolgimento, restauro antidepressivo sul piano dell’immagine che cerca di compensare la mancanza di soddisfazione reale. Più il mondo degli oggetti si impone alla nostra soggettività  più diventiamo incapaci di essere soddisfatti. Niente si usa veramente se non ci coinvolge in profondità , se non ce ne appropriamo internamente. Rischiamo di essere sommersi di cose consumate senza essere usate.

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