Tunisia. Nelle università della sfida dell’Islam radicale
Tunisi. Nei corridoi della facoltà di Scienze umane, Sausen Labidi chiacchiera con un compagno di corso seduto su una scrivania. L’abito tradizionale islamico la copre come la tonaca di una suora, spuntano solo il viso sottile e la punta delle scarpe. Lui, invece, esibisce un giubbotto di pelle, scarpe da ginnastica e un berrettino da baseball girato all’indietro. «Sono musulmana, mi vesto così. Ma sono anche tunisina, e orgogliosa di rispettare le regole del mio Paese. Se in aula il viso deve essere scoperto, per me va bene». Il velo va bene, ma anche sulle altre richieste dei salafiti Sausen ha le idee chiare: «Hanno proposto lezioni separate per maschi e femmine, credo che sia una buona idea. Sa, uno studioso britannico ha scoperto che le donne in genere sono più produttive dal punto di vista intellettuale quando non ci sono uomini presenti. No, qui ovviamente la religione non c’entra nulla».A Manouba, una delle due università di Tunisi, gli studenti vorrebbero raffreddare le polemiche delle scorse settimane: «Uno studente salafita ha voluto appendere accanto a quella tunisina anche la bandiera nera dei fondamentalisti, con i versi che dicono “Non c’è altro dio che Dio, e Maometto è il suo profeta”. Poi però, qualcuno ha tolto la bandiera tunisina, e le autorità universitarie sono intervenute», racconta Rebah, studente di Lingue in jeans, con la barba appena accennata. Poco più lontano, Mohamed esibisce invece una barba lunga, l’abito tradizionale e la cuffia bianca da preghiera. Chiarisce subito il credo suo e del suo gruppo: «Noi vogliamo studiare l’Islam. Vogliamo che la Tunisia adotti la sharia. Non seguiamo il Libro, vogliamo seguire l’esempio del Profeta e dei suoi amici». La Salafia, insomma.
Mohamed ha 27 anni ma nel viale alberato di Manouba cammina un po’ a fatica. Forse è un ricordo dei quattro anni che ha passato nelle galere di Ben Ali, perché durante il regime era proibito fare proselitismo religioso all’università .
Dopo la rivoluzione che ha dato l’avvio alla “primavera araba”, però, gli integralisti hanno cercato un nuovo ruolo, muovendosi in modo molto aggressivo e cercando di influenzare Ennahda, il partito islamico moderato al governo. E il fronte dell’università è il più caldo. A gennaio cinque salafiti hanno avviato uno sciopero della fame per rivendicare il diritto delle studentesse a portare anche a lezione il niqab, velo integrale che copre anche il viso. A marzo i fondamentalisti hanno avviato un sit-in nel campus di Manouba, cercando di far boicottare le lezioni fino a quando il divieto di portare il niqab fosse stato cancellato. Il preside Habib Kadzaghli ha denunciato di essere stato «sequestrato», anche se forse gli è stato solo impedito di accedere al suo ufficio. Gli studenti laici hanno risposto con una manifestazione nel centro di Tunisi, con cartelli che dicevano: “No alle catene, no al velo, la scienza deve essere libera”. Ma nei giorni scorsi i salafiti hanno di nuovo interrotto le lezioni, insistendo sul velo e chiedendo anche un luogo di preghiera all’interno dell’università .
Il ministro dell’Istruzione superiore Moncef Ben Salem, che fa parte del partito islamico Ennahda, sospetta che sia stata l’intransigenza del preside a far esasperare i problemi. «In tutto il paese c’è un centinaio di ragazze che usano il velo integrale. Ma le contestazioni sono scoppiate solo a Manouba», dice. Insomma, per il governo lo scontro all’università è più intemperanza giovanile che reale minaccia fondamentalista.
In realtà la presenza dei salafiti non è limitata alle università ed è sempre più ingombrante nel panorama tunisino. Il governo prende le distanze, garantisce che non si farà imporre nessuna agenda radicale. Said Ferjani, in passato esule politico a Londra e oggi alto funzionario di Ennadha, sottolinea che il governo non accetterà l’imposizione di uno stile di vita da nessuno, ed è pronto a proteggere la scelta individuale delle donne, che sia quella di indossare un burqa o di sfoggiare il bikini.
Ma in concreto la polizia appare troppo tollerante con gesti incendiari, come l’appello ad attaccare la comunità ebraica, pronunciato da un predicatore durante un corteo nel pieno centro di Tunisi. O l’accoglienza all’egiziano Heni Sbai, “bandito” da Ben Ali, il cui arrivo all’aeroporto della capitale è stato “facilitato” se non imposto da una moltitudine minacciosa sotto gli occhi degli agenti, nonostante il religioso sia ancora nella lista delle persone “indesiderabili” in Tunisia. O la provocazione di appendere la bandiera di Hizb Ettahrir, partito semiclandestino e favorevole al Califfato, proprio sull’orologio del centro città , nella ex piazza 7 novembre ora intitolata a Mohamed Bouazizi, il giovane venditore di frutta che diede l’avvio alla rivolta immolandosi nel fuoco a Sidi Bouzid, nel gennaio dell’anno scorso.
Il padre della patria, Habib Bourghiba, aveva imposto in Tunisia una visione rispettosa dell’Islam ma fondamentalmente laica. Si era persino esposto a bere un bicchiere di latte durante il Ramadan, perché Dio chiede la preghiera ma approva ancora di più il lavoro, e chi digiuna è troppo debole per produrre. Ora la ripresa integralista vuole rimettere tutto in discussione. Non tutti sembrano preoccupati: «L’alternativa alla tolleranza con i salafiti sarebbe stato il manganello», fa osservare un alto funzionario occidentale: «Se avesse scelto la repressione, il governo avrebbero dato l’idea che si tornava ai modi del vecchio regime. Non era davvero il caso».
Lina Ben Mhenni scuote la testa: «La verità è che non è cambiato niente. Eravamo in una dittatura, siamo in una dittatura anche oggi». La giovane blogger, protagonista della rivoluzione e candidata persino al Nobel per la pace, parla senza remore al JFK di rue de Marseille, dove servono birra senza problemi: «La prova che non è cambiato niente? È l’uso della violenza sul dissenso, il lancio dei lacrimogeni sui dimostranti pacifici durante le manifestazioni. Sono tornati gli stessi picchiatori dei tempi di Ben Ali, abbiamo foto e video che lo dimostrano. E non ci sono differenze fra Ennahda e i salafiti, sono solo due facce della stessa oppressione».
Poco lontano, sull’avenue Bourghiba, i caffè si svuotano con l’imbrunire. O meglio: gli uomini restano, aggrappati all’ennesima sigaretta, le donne sono già sparite. Durante il giorno l’hijab, il velo che copre solo i capelli, si vede più che in passato. Potrebbe essere conseguenza della maggior libertà , visto che ai tempi di Ben Ali gli entusiasmi islamici erano repressi duramente.
A Manouba, comunque, gli studenti non vogliono nemmeno sentir parlare di tornare indietro sulla libertà di abbigliamento.
Sumaya, che ha scelto di unire l’hijab ai jeans attillati, ha anche un’altra risposta per i salafiti: «La religione mi impone di coprire il capo. È una regola di Dio, e la seguo con orgoglio. Ma la divisione delle classi fra maschi e femmine non va bene. Non ci capiremmo più. E Dio ha detto: parlate tra voi».
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