Tra le strade in fiamme del Bahrein un dimostrante muore negli scontri ma lo show dei motori non si ferma

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MANAMA. Le show-girl venute dall’Inghilterra, con i loro abiti luccicanti di paillettes e le complicate acconciature di finte piume di struzzo, sembrano creature irreali nell’opprimente calura del deserto. Ma loro, nonostante i morsi violenti del sole sul loro pallido incarnato, continuano a sorridere agli scatti di decine di telefonini. Perché qui, nella bolla del Gran Premio voluto a tutti i costi, non c’è spazio per i pensieri molesti e le notizie tragiche, come quella che, nel giorno delle qualifiche, arriva da Manama, distante soltanto una trentina di chilometri, dove il cadavere di un dimostrante ucciso venerdì sera in una manifestazione anti-regime, è stato ritrovato ieri mattina sul tetto di un casolare.

È difficile trovare un filo logico che leghi lo spettacolo del redivivo Gran Premio del Bahrein e il dramma che va in scena quotidianamente, al calar della sera, per le strade e nei villaggi sciiti che circondano Manama come una “corona di spine”. È la stessa rivolta popolare esplosa nel febbraio del 2011: la maggioranza sciita contro la minoranza sunnita, il popolo degli esclusi e dei condannati all’opposizione contro il potere assoluto della famiglia reale degli al Khalifa. Ma le ragioni di sicurezza, di opportunità , di coerenza che hanno portato alla cancellazione del Gran Premio nel 2011, quest’anno non valgono più. Troppo grandi gli interessi in gioco.
Certo, nulla di imprevisto può succedere nel divertimentificio allestito sotto le tribune dell’autodromo di Sakhir, fra gli stand che vendono memorabilia delle varie scuderie, ristoranti, supermarket e un palcoscenico di arte varia i cui altoparlanti sfidano per rumorosità  il lancinante rombare dei motori. Gli elicotteri dell’esercito vegliano sul circuito e sulla folla dei visitatori, fra i quali spiccano i sauditi. Una ragnatela di posti di blocco scruta e filtra chiunque si avvicini all’area dell’autodromo.
La realtà  esterna sembra aliena, lontana e irraggiungibile dal gigantesco paddock dove si aggirano gli uomini e le donne della Formula 1, protagonisti e comprimari di una competizione globale che si ripete con cadenze fisse per otto mesi l’anno. Sicché non deve stupire se Sebastian Vettel, autore del miglior tempo nelle prove ufficiali, durante la conferenza stampa seguita alle qualifiche ammetta con un qualche imbarazzo di «non saper nulla» della morte del manifestante di Manama e della cornice di cui, tragicamente, fa parte.
Né molto di più può dire il campionissimo della Ferrari, Fernando Alonso, oltre che sommessamente definirsi «un uomo di sport», «rattristato, certo, per la perdita di una vita umana», ma ignaro, come gli altri suoi colleghi delle ragioni e dei dettagli di quella morte. Mentre il patron del Circo, l’onnipotente Bernie Ecclestone, finisce con il cadere in una gaffe per così dire rivelatrice quando, scambiando il manifestante ucciso per Abdulhadi al Khawaja, l’attivista dei diritti umani, da 73 giorni in sciopero della fame, dichiara che «la morte era quello che voleva». Salvo, poi, ammettere il qui pro quo.
Ma non si tratta soltanto della cinica legge dello spettacolo, o dell’indifferenza di un mondo a parte. Il fatto è che il regime del Bahrein dopo aver voluto a tutti i costi il ritorno della Formula 1, non soltanto per le forti entrate (500 milioni di dollari) che il Gran Premio garantisce, ma anche per mandare un segnale politico di ritrovata normalità , nonostante la lunga rivolta, il regime, dicevamo, ha fatto di tutto per isolare la gara e il circuito dal resto del paese.
Basta percorrere la strada che da Manama conduce a Sakhir. Auto della polizia, mediamente a ogni chilometro. Blindati antisommossa in vicinanza dei quartieri sciiti sfiorati dalla grande arteria, con gli agenti in divisa nera che, armi alla mano, osservano le case dando le spalle al traffico. Ma tutto questo non è servito a fermare i dimostranti. I quali, dopo aver cercato confusamente di boicottare il Gran Premio, hanno deciso di approfittare della presenza massiccia dei media al seguito della corsa, per rilanciare una protesta da tempo uscita dall’elenco dei titoli principali. Una rivolta dimenticata.
E così ogni giorno i quartieri sciiti s’incendiano. Come è successo venerdì a Budaja (migliaia di persone in piazza con lunga coda notturna di scontri tra forze di sicurezza e dimostranti) e come è successo più o meno nelle stesse ore a Bilad al Qadim. In questo sobborgo a 12 chilometri da Manama è nato ed è morto venerdì notte Salah Abbas Habib, il dimostrante di 36 anni ucciso, secondo fonti dell’opposizione, dopo essere stato picchiato selvaggiamente dalla polizia. Stavolta alla violenza s’è aggiunto il mistero. Perché il corpo della vittima è stato trovato ieri mattina inspiegabilmente abbandonato sul tetto di un casolare.
È stata un’altra fiammata. Scontri e incidenti lungo tutto il pomeriggio. E continuerà  così anche dopo che il circo della Formula 1 avrà  levato le tende. Ma forse nessuno se ne accorgerà .


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