Telefonata Marcegaglia-Monti Sulla riforma ora è disgelo

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ROMA — Quando lo scontro fra la Confindustria e il governo sembrava aver raggiunto un punto di non ritorno, Emma Marcegaglia ha deciso di chiamare Mario Monti. Ieri la presidente di Confindustria ha così voluto dire al premier che nello strappo sulla riforma del mercato del lavoro non c’è nulla di personale. Ma anche ripetere che il provvedimento va corretto in Parlamento perché sono troppe le cose insostenibili per le aziende: dai vincoli e costi sui contratti temporanei al nuovo articolo 18 che affida troppa discrezionalità  ai giudici, ora anche sui licenziamenti disciplinari, scoraggiando le imprese dall’aprire un contenzioso con il lavoratore pure quando ciò sarebbe necessario. Un tentativo, insomma, quello di Marcegaglia, se non proprio di ricucire, almeno di riaprire il dialogo. Dopo il gelo, il disgelo. 
Ma le incomprensioni e i rancori di queste settimane pesano. E sarà  difficile ricomporre il dissidio, perché i margini di manovra in Parlamento sono stretti, con il Pdl che vorrebbe tutte le modifiche alla riforma chieste dalla Confindustria e il Pd che invece si oppone, difendendo in particolare la nuova formulazione dell’articolo 18, che ha ricevuto anche un mezzo via libera dalla Cgil. Ieri però Monti, nella telefonata con Marcegaglia, avrebbe mostrato disponibilità  a rivedere l’ultima cosa che ha fatto arrabbiare Confindustria, la scoperta cioè che nel testo del disegno di legge presentato dal governo al Senato, al comma riguardante i licenziamenti per motivi disciplinari è stato aggiunto un rinvio alle «previsioni della legge» tra i criteri con i quali il giudice decide se reintegrare il lavoratore. Nel testo concordato a Palazzo Chigi il 20 marzo questo non c’era.
L’integrazione, probabilmente suggerita dal servizio legislativo di Palazzo Chigi come raccordo ai principi generali dell’ordinamento, secondo Confindustria cambia le carte in tavola. Allargando la discrezionalità  del giudice, rende più probabile la sanzione del reintegro rispetto a quella dell’indennizzo nel caso di licenziamento disciplinare illegittimo. Il giudice, infatti, richiamandosi alle previsioni generali di legge, potrà  spesso affermare che il licenziamento è sproporzionato rispetto al fatto o al comportamento tenuto dal lavoratore. Se davvero il governo correggerà  questo punto e magari accoglierà  anche qualche richiesta di Confindustria e delle altre associazioni imprenditoriali di alleggerire i costi e i vincoli sulla flessibilità  in entrata, la reazione negativa dei sindacati, in particolare della Cgil, è scontata, e il Pd non potrà  non tenerne conto. Alla fine, in Parlamento, potrebbe riproporsi lo scambio già  visto nella fase finale della trattativa: concedere ai sindacati qualcosa sull’articolo 18 e alle imprese qualcosa sulla flessibilità  dei contratti. Solo che questo scambio è esattamente quello che non ha funzionato la prima volta, alimentando i sospetti in Monti e Marcegaglia di un reciproco tradimento dei patti. 
Era stato il presidente del Consiglio, nella notte tra il 3 e il 4 aprile, dopo il vertice con i segretari della maggioranza (Alfano, Bersani e Casini) a telefonare a Marcegaglia per informarla che avrebbe dovuto cambiare la formulazione dell’articolo 18 introducendo la possibilità  del reintegro sui licenziamenti per motivi economici, altrimenti il Pd non avrebbe retto la situazione. In cambio, appunto, il premier aveva offerto di specificare che il giudice non sarebbe comunque potuto entrare nel merito dei motivi economici del licenziamento e un rinvio di un anno delle sanzioni sulle partite Iva fasulle. Marcegaglia aveva allora chiesto che tra le ragioni che giustificano il licenziamento fosse previsto anche lo «scarso rendimento» e che l’indennizzo massimo fosse ridotto da 27 a 20 mesi. Monti aveva respinto la prima richiesta e aperto alla seconda. Ma nel testo finale il tetto all’indennizzo è di 24 mesi: altro motivo di delusione per la Confindustria. E soprattutto non c’è l’esclusione dei lavoratori stagionali dal contributo aggiuntivo dell’1,4% sui contratti a termine, correzione anche questa concordata, sostiene Marcegaglia. Di qui la dura reazione della presidente di Confindustria che, con una serie di interviste sui media italiani e internazionali, ha bocciato il provvedimento, suscitando la replica di Monti («una riforma così le imprese se la sognavano fino a qualche mese fa») e del ministro del Lavoro, Elsa Fornero, che ha parlato di reazione «isterica». Uno strappo aggravato da incomprensioni, rancori e sferzate tanto più pesanti perché tra persone che vengono da mondi, quello dei tecnici e delle imprese, da sempre vicini.
Incomprensioni e rancori che solo ieri si sono sciolti in una conversazione più distesa. Marcegaglia, del resto, ha ammesso che forse la dura intervista al Financial Times, il quotidiano più letto sui mercati, è stata un errore. E Monti si rende conto che il testo della riforma non può essere blindato, ma che qualche correzione andrà  fatta. Solo che si aspetta maggior cautela dalla Confindustria, perché il suo far asse con il Pdl, saltando il rapporto diretto col governo, rischia di rendere più difficile l’accoglimento delle stesse richieste delle imprese. 
Nei primi giorni di iter parlamentare al Senato, qualche aggiustamento al disegno di legge che possa essere condiviso da Pdl, Pd e Udc è emerso: l’esclusione appunto degli stagionali dalla penalizzazione dell’1,4%; una migliore definizione dei paletti sulle partite Iva; la concessione ad artigiani e commercianti della possibilità  di gestirsi la cassa integrazione attraverso i loro enti bilaterali. Ma ora se si alza la posta, si riaprono i giochi. Ecco perché, per evitare il peggio, evocato l’altro ieri da Fornero («se salta la riforma andiamo tutti a casa») a Monti non resta che concludere, domani, un nuovo accordo con Alfano, Bersani e Casini. Questa volta sì per blindare il testo. E poi… staccare i telefoni.


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