Sui licenziamenti economici contestati cade l’onere della prova per i lavoratori

by Editore | 3 Aprile 2012 6:39

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ROMA — Cade l’onere della prova a carico del lavoratore nei licenziamenti economici che, a suo avviso, celerebbero motivi discriminatori o disciplinari. E’ questo uno degli ultimi ritocchi inseriti nel testo della riforma del lavoro che il ministro Elsa Fornero presenterà  oggi al presidente del Consiglio, Mario Monti, appena rientrato dall’Asia.
Si tratta di una modifica ancora ieri richiesta a gran voce dal leader della Cgil, Susanna Camusso, che per il resto è tornata a tuonare contro i licenziamenti illegittimi, contro i quali insiste nel voler ottenere il diritto al reintegro. E su questa misura si sono fatti sentire anche il Pd e la Cisl, impegnata con il segretario Raffaele Bonanni nell’ultima mediazione prima dell’approdo in Parlamento.
Ma fino a ieri sera nella settantina di articoli che compongono il disegno di legge Monti-Fornero, il reintegro non c’era. Il testo infatti recita che «il giudice laddove accerti l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo ordina il pagamento di un’indennità  risarcitoria onnicomprensiva, tra 15 e 27 mensilità  di retribuzione». Ma riepiloghiamo tutta la disciplina.
La crisi aziendale.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, altrimenti detto per motivi economici, secondo la legge che oggi lo regola (la 604/1966) è sostenuto da ragioni che attengono all’ attività  produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Cosa significa? Che costituiscono giustificato motivo di licenziamento individuale la crisi dell’impresa, la cessazione dell’attività  e, anche solo, il venir meno delle mansioni cui era in precedenza assegnato il lavoratore, se non è possibile il suo «ripescaggio», ovvero la ricollocazione del medesimo in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con il livello di inquadramento. Fin qui non cambierà  nulla. 
Il ruolo del giudice.
Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento oggi è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza alcuna ingerenza da parte del giudice circa la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, in quanto questi sono considerati espressione della libertà  di iniziativa economica dell’ imprenditore in base all’articolo 41 della Costituzione. Al giudice, insomma, spetta soltanto il controllo circa l’ effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore sul quale grava l’onere di provare l’inutilità  della singola posizione e l’impossibilità  di adibire il lavoratore in altra collocazione. Fatto sta che se i motivi economici non ci sono, l’attuale normativa prevede il reintegro del lavoratore, il risarcimento del danno e la corresponsione dei contributi mancati. 
L’onere della prova. 
L’articolo 18, come modificato da Fornero, esclude il reintegro e offre al lavoratore la sola possibilità  dell’indennizzo nel caso in cui venga accertata, davanti al giudice, l’insussistenza del motivo economico addotto dal datore di lavoro. C’è però la possibilità  che il lavoratore ricorra al giudice per verificare se il motivo economico nasconda in realtà  un motivo discriminatorio o disciplinare. 
Nel testo limato ieri sera l’onere di provare questa circostanza non sta più in capo al lavoratore. La norma infatti reciterebbe: «Qualora si accerti che il licenziamento è stato determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, il giudice applica la relativa tutela». Dunque l’accertamento, in linea con le tendenze della giurisprudenza, è effettuato a prescindere dalle prove portate dal lavoratore. Nel caso in cui la tesi del lavoratore risulti fondata, si applicherà  la tutela prevista per gli altri licenziamenti, cioè il reintegro, nel caso dei discriminatori, e il reintegro o l’indennizzo, nel caso dei disciplinari.
La conciliazione obbligatoria. 
Nella riforma del lavoro costituisce una novità  anche la procedura di conciliazione relativa ai licenziamenti, che ha lo scopo di evitare l’instaurazione delle cause giudiziarie e di risolverle con un rito accelerato, quando ciò non sia possibile. La procedura di conciliazione sarà  obbligatoria per tutti i licenziamenti di tipo economico, mentre finora, il tentativo di conciliazione è stato facoltativo: a richiesta del lavoratore. 
Le nuove norme prevedono che in tutti i casi di licenziamento per motivi economici si tenterà  la conciliazione in una sede terza, come gli uffici provinciali del Lavoro, dove le parti, cioè l’azienda e il lavoratore, con l’assistenza dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali, dovranno presentarsi entro un termine prefissato e decideranno se risolvere la controversia attraverso una transazione economica, che lo Stato potrebbe incentivare con la corresponsione di un voucher che il licenziato potrebbe «spendere» presso i servizi di ricollocamento al lavoro (corsi di formazione e riqualificazione compresi). 
Il vincolo che non c’è ancora.
Nel testo Fornero è stabilito che se la conciliazione fallisce, il lavoratore può comunque ricorrere al giudice. Ma la disciplina potrebbe subire un ritocco: potrebbe essere introdotta la regola in base alla quale, il lavoratore che nella conciliazione ha rifiutato l’indennizzo, preferendo andare in causa, nel caso la perda non otterrà  nulla, nemmeno la cifra discussa nella fase conciliativa. E’ questo il modello usato in Germania che ha lo scopo di far sì che in tribunale arrivino solo una parte delle controversie, quelle dove il lavoratore ritiene di avere un’alta possibilità  di ottenere l’indennizzo, che la legge fisserà  tra un minimo di 15 e un massimo di 27 mensilità , o addirittura il reintegro nel posto di lavoro laddove riesca a convincere il giudice che il licenziamento non ha motivazioni economiche bensì discriminatorie. 
Per scoraggiare ulteriormente il ricorso al tribunale, si prevede che il giudice, qualora decida per l’indennizzo, ne stabilisca la misura tenendo anche conto del comportamento delle parti durante il tentativo di conciliazione. Questo significa che se la controversia poteva appunto essere risolta prima, perché non ci sono gli estremi del reintegro, il giudice tenderà  a «punire» il lavoratore stabilendo un indennizzo basso. 
I tentativi sul reintegro. 
Come si è detto, nel testo Fornero il reintegro non c’è. Ma il Pd e i sindacati spingono affinché venga reintrodotto. Il testo cui si starebbe lavorando, oltre alla norme sulla conciliazione obbligatoria, di cui abbiamo detto prima, introdurrebbe un’ulteriore facoltà  del giudice. Quella di scegliere tra reintegro e indennizzo. Il primo sarebbe dovuto sempre nel caso di licenziamenti oggettivi palesemente infondati, il secondo nel caso in cui i motivi economici si ravvisassero sussistenti ma fossero di tale natura da giustificare un equo indennizzo per il lavoratore. I sindacati sottolineano che, in cambio, anche al lavoratore potrebbe essere data facoltà  di scegliere tra indennizzo e reintegro. Ma in realtà  la normativa attuale già  lo consente. 
Confindustria vede il ripristino del reintegro come fumo negli occhi. Semmai vi si approdasse, pretenderebbe una modifica delle norme sulla flessibilità  in entrata. Nel mirino i contratti a termine, le partite Iva e il lavoro a progetto.

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