Stupro di Montalto, via al processo e il paese difende ancora il branco

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Dopo quattro rinvii per legittimo impedimento, ieri mattina, è cominciato il processo contro gli otto giovani di Montalto di Castro accusati di aver stuprato, a turno e per tre ore, la notte del 31 marzo del 2007, una studentessa.
L’udienza è iniziata alle nove e trenta del mattino: prima testimone, la sorella gemella della vittima. È stata lei a raccogliere, per prima, il racconto della sorella, rientrata a casa, a Tarquinia, dopo quella notte di follia. «Mia sorella da quel giorno è diventata un’altra. Era la migliore della classe e non ne ha più voluto sapere di andare a scuola – ha raccontato al magistrato la ragazza – rideva sempre e ora è scattosa, nervosa, irascibile. Quella notte ha cambiato la sua vita, quando mi ha raccontato cosa le avevano fatto non ho saputo aiutarla a dovere, ero giovane. Ma lei era sconvolta e, dopo averla ascoltata, io lo ero più di lei».
«Non c’è pace senza giustizia», recita uno striscione nero srotolato da un presidio dell’Unione donne italiane davanti al Tribunale dei Minori di Roma mentre, in aula, sfilano uno dopo l’altro i testimoni dell’accusa: il fratello della vittima, il medico di base della famiglia, il preside della scuola frequentata allora dalla ragazza, uno psicologo della Asl che l’ha avuta in cura per mesi.
Ma la giustiziae la pace, in questa terribile vicenda accaduta cinque anni fa nella pineta che costeggia il litorale di Montalto di Castro, al termine di una festa di compleanno, sembrano essere rimaste appese a un tempo mai trascorso. Tutto è ancora fermo a quella maledetta notte del 2007 e ai giorni che seguirono, e che furono un rincorrersi di veleni, accuse e maldicenze. «È tutta colpa della ragazza, lei c’è stata», dicevano cinque anni fa nel paesotto dell’alto Lazio, tra la Tuscia e la Toscana. E ieri Montalto di Castro, mentre al tribunale di Roma si ripercorrevano le tappe della violenza del branco, era ancora trincerato dietro la strenua difesa dei suoi otto compaesani. «Le dico che quella ragazza c’è stata – si scalda un anziano seduto a un tavolino del “Bar del Corso”- era una poco di buono, l’aveva già  fatto con un altro gruppo di ragazzi a Tarquinia. Li ha sedotti e quelli poverini a sedici anni avevano gli ormoni a mille».
In quel paese di settemila anime, giovani, donne, anziani, la pensano ancora tutti, o quasi, così. «Se è vero quello che è accaduto, è sicuramente una cosa deplorevole – dice Daniela Iezza, barista – ma certo è che se sei invitato, a quell’età , a un banchetto del genere, è chiaro che partecipi. Perché quei ragazzi avrebbero dovuto sottrarsi? ». Un banchetto? «Beh, se quella ragazza, come ho sentito da alcuni filmati su Canale 5, li invitava uno dopo l’altro ad andare con lei…. credo sia difficile a quindici anni dire di no». «Lo volete capire o no che sono ragazzi e che hanno fatto una bravata? – interviene Riccardo Mencaroni, titolare di una pizzeria – Io loro li conosco bene, lei no. Perché dovrei credere a lei? ».
Ecco: i rancori, i giudizi spietati, i pregiudizi sono ancora tutti lì, congelati per cinque anni e, riaperti ieri, sono tornati vivi, accesi, partecipati come se fosse trascorsa appena una settimana.
«Io penso che la lentezza della giustizia – sentenzia Giorgio Sorci- in questo caso abbia avuto una grossa responsabilità : allungare i tempi ha comportato un inasprimento delle proprie posizioni. E il processo è già  fatto.
Quegli otto ragazzi hanno un marchio appiccicato così come lo ha la ragazza e, senza una sentenza del tribunale, non se ne esce». Come a dire che la sentenza è già  stata scritta e quello che deciderà  la magistratura non inciderà  sull’esito del processo.
«Se avessi saputo tutto questo, se avessi minimamente sospettato di subire un giudizio così duro, lo giuro, non avrei mai denunciato quanto ho subito», confida la giovane vittima, all’ex consigliere di Parità  alla Provincia di Viterbo Daniela Bizzarri che le è stata accanto in tutti questi anni. Ma, accanto alla rassegnazione, una debole speranza si è riaccesa con l’inizio di un processo cominciato troppo tardi.
Ad allungare i tempi del giudizio ha contribuito anche la “messa in prova” concessa agli otto giovani: un beneficio che, se avesse avuto esito positivo, avrebbe portato all’estinzione del reato.
Ma fu revocato perché la solidarietà  espressa pubblicamente nei loro confronti fece ritenere ai giudici che nel paese non ci fossero le condizioni necessarie al loro ravvedimento.


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