by Editore | 20 Aprile 2012 9:02
In mezzo l’operaio ventisettenne di Verona, morto col fuoco. Il corniciaio romano di 57 anni, impiccato anch’egli. L’elettricista quarantasettenne di San Remo, sparatosi…Litania alla quale aggiungeremmo la disponibilità alla macelleria sociale del governo che ieri ha prima cancellato l’esenzione dei ticket per i disoccupati e poi, dopo molte ore, li ha ripristinati «tecnicamente». È il costo umano pagato quotidianamente alla crisi economica. «Stragi di Stato», sono state chiamate. Ed è giusto, perché le politiche economiche, le normative, le inadempienze dei poteri pubblici non sono innocenti. Ma bisognerebbe aggiungere, subito dopo: «stragi di mercato».
Se leggiamo con attenzione le qualifiche professionali in questo elenco di necrologi che si allunga ogni giorno di più, vedremo che sono operai, disoccupati, piccoli imprenditori, pensionati: tutte le variegate figure di quel lavoro del cui mercato il governo sta ridisegnando la struttura. E di cui, quelle morti tragiche, ci dicono quanto sia inseparabile dalla vita delle persone. Quanto pericoloso (e criminale) sia l’atto, mentale e pratico, di ridurre il lavoro alla pura dimensione di merce: di cosa che si scambia secondo le leggi oggettive della domanda e dell’offerta.
Quando Luciano Gallino non si stanca di ammonirci che «il lavoro non è una merce», non si limita a un’affermazione, sacrosanta e doverosa, di carattere culturale e teorico, di cui discutere amabilmente nei seminari accademici (ovunque, tranne che in Bocconi!). Dice anche quale operazione estrema (e feroce) si compie sui corpi delle persone, quando si pretende di spezzare quell’unità bio-economica. Di ridurre la vita al lavoro a nudo fattore economico, sottoposto alle «leggi ferree» del mercato, senza più diaframmi, ombrelli protettivi, barriere opposte all’onnipervasivo processo di mercificazione dell’esistenza.
Il barzellettiere di governo le ignorava quelle morti, preferiva nascondere la testa del paese nella sabbia mobile dei suoi eccessi, ma nel 2010 la «strage di mercato» contò 362 suicidi tra i soli disoccupati, 192 tra i lavoratori in proprio, 144 tra i piccoli imprenditori (i grandi fuggono all’estero, non si sacrificano). Quasi due morti al giorno. Il professor Monti ne registra la realtà , anche se con un eufemismo che non ne diminuisce la drammaticità : «vite che si chiudono nella disperazione». Parla di un «prezzo altissimo», e ricorda che però in Grecia il bilancio supera già i 1.725 casi.
Il che è pur vero, come è vero che in caso di default anche qui la strage aumenterebbe di scala, e diventerebbe letteralmente macelleria sociale.
Quel che tuttavia non dice il capo del governo dei tecnici, è che quello stillicidio di morti italiane, e quella cascata di suicidi greci, sono figli, entrambi, della medesima cultura economica e sociale, da lui stesso condivisa. Che sono il prodotto di una visione del mondo e di una teoria economica «fallite» e tuttavia costituitesi in dogma pressoché assoluto e, da questa settimana, anche in principio costituzionale con l’inserimento nella Carta dell’obbligo del pareggio di bilancio. In nuovo Nomos della Terra. È in nome di quella inedita sovranità impersonale e crudele – priva di futuro e tuttavia esigente nel presente – che i «commissari» dei Paesi periferici sono costretti a girare il mondo ostentando lo scalpo dei rispettivi «mondi del lavoro», degli antichi titolari dei diritti, nella speranza spesso vaga di attirare lo sguardo benevolo di qualche segmento di mercato, in una corsa senza fine verso il basso. Sulla base di quei dogmi, non ne usciremo. Non c’è una fine del tunnel. Né – la cosa è sempre più evidente -, un punto di ripresa. Se vogliamo mettere un freno alle «stragi di mercato» dovremo limitare il potere dei mercati di mettere le mani sulla vita. Dovremo lavorare per imporre una svolta culturale, sociale e infine politica radicale, non solo qui, nella nostra periferia fragile, ma nel cuore stesso d’Europa, dove il feticcio è più forte.
Compito improbo, marcia lunghissima. Meglio mettersi in cammino.
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