Strabiche riletture del secolo breve
Chi si cimenta in certe imprese mostra indubbio coraggio. Scrivere la storia del comunismo, sia pure del solo comunismo novecentesco, sia pure della sua sola dimensione immediatamente politica, si carica un fardello. E promette di muoversi su un terreno complesso (si tratta pur sempre di ripercorrere un buon tratto della «storia del mondo») tenendosi a distanza da una tentazione che appare qui particolarmente forte: quella di usare processi ed eventi come «mezzi di prova» a conforto di tesi precostituite, piegando la ricostruzione storica al servizio di battaglie ideologiche. Si assume, in una battuta, l’onere di resistere alla tentazione di fare – come si è rimproverato per decenni a tanti storici del movimento operaio e dell’antifascismo – della «storiografia militante».
Incongruenze
Diciamo subito, a scanso di equivoci, che in questo caso al coraggio dell’autore (lo storico Silvio Pons, direttore di quello che fu il prestigioso Istituto Gramsci, pensato da Togliatti come «centro nazionale per l’approfondimento e l’irradiazione culturale del marxismo-leninismo») non corrisponde pari fermezza. Quella che La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991 (Einaudi 2012, pp. 419, euro 35) presenta come sintesi storiografica di una controversa stagione «politico-storica» è piuttosto un contributo alla campagna di «liquidazione» dell’esperienza e delle ragioni del movimento comunista nato dalla rivoluzione d’Ottobre (quindi, secondo Pons, del comunismo tout court): una valorosa sparatoria – dati i tempi – contro la Croce Rossa.
Il comunismo internazionale di cui si tratta è due cose: un movimento politico, composto da partiti, scrive Pons, «legati a doppio filo con Mosca», e un sistema di Stati che «replicavano il modello politico, economico, sociale generato dalla rivoluzione bolscevica» e si presentavano come una «comunità internazionale». Restano fuori altre dimensioni: il modello teorico (l’insieme delle varianti della critica marxiana del capitalismo) e il comunismo come movimento sociale. Questo spiega la determinazione dell’arco cronologico, ma crea due inconvenienti: la negazione della relativa autonomia del piano culturale e la riduzione delle idee (che sono di per sé fatti esse stesse) a mere «componenti ideologiche».
Nella sua duplice dimensione (Stati e movimenti) il comunismo internazionale fu efficace, ma – come emerse nella rottura tra Urss e Cina e nella collisione con la Jugoslavia di Tito – non privo di contraddizioni. Pons pone l’accento sulle «incongruenze» che lo attraversarono, malgrado gli sforzi (compiuti in particolare da Stalin) di determinarne la «simbiosi» nel segno del primato dello Stato-guida. A suo giudizio, il «sistema di comando» e la «condotta imperiale» dell’Urss crearono «più divisione e tensione che unione e armonia», e «impedirono la costruzione di una comunità di destino transnazionale». Di qui la crisi ineluttabile nel dopoguerra, e il «fallimento del progetto universalista»: «ascesa e caduta del comunismo» si consumarono in pochi decenni. Questo, in estrema sintesi, lo schema che sottende una geometrica periodizzazione: dopo il «tempo della rivoluzione» (1917-23), quello «dello Stato» (1924-39); dopo «il tempo della guerra» (1939-45), quelli «dell’impero» (1945-53), «del declino» (1953-68) e «della crisi» (1968-91). Ma, al di là del Leitmotiv (unità come negazione e soffocamento della pluralità ), la tesi di fondo è che tutto quanto l’Urss fece fu male: non solo la proterva ambizione di realizzare in tempi accelerati la liberazione di grandi masse umane, ma la stessa battaglia antifascista, che pare a Pons sempre tattica e strumentale, e in contraddizione («schizofrenica») con la prospettiva classista. Come se individuare una classe dominante e combatterla impedisse di distinguere le forme del suo potere e il loro diverso grado di violenza e pericolosità .
Il tema forte, che struttura la narrazione è il nesso simbiotico tra comunismo e guerra. L’Urss nasce nel pieno della guerra, ne è figlia naturale e – complice la concezione polemologica della politica ereditata da Marx – in essa resta, a giudizio di Pons, imprigionata. La leadership sovietica lesse tutta la realtà come una guerra, a cominciare da Lenin, convinto dell’equazione tra capitalismo e guerra imperialistica. È quella che Pons definisce la «struttura clausewitziana» del progetto comunista, tendendo a considerare la guerra monopolio del comunismo. Il quale «aveva postulato una divisione dicotomica del mondo lungo linee di classe, un’antitesi che doveva essere ricondotta a unità dallo Stato rivoluzionario, dal suo sistema territoriale e dal movimento dei suoi seguaci, in nome di ideali di giustizia che esso pretendeva di monopolizzare quale interprete esclusivo del corso profondo della storia».
Un caso di scuola
Riecheggia qui una tesi di Carl Schmitt (il bolscevismo come «partito della guerra civile», fattore scatenante della trentennale «guerra civile europea») riesumata da Ernst Nolte. Senonché, quanto a «divisioni dicotomiche», lo stesso si potrebbe dire, specularmente, del mondo capitalistico, identificatosi sin da subito (non solo con Reagan) con il «mondo libero» in guerra contro l’Impero del Male. Pons non lo ricorda, ma nel ’17 inglesi e francesi spedirono 280mila uomini a dare man forte ai «bianchi» zaristi, quindi mediarono l’istituzione di un ordine traballante nella zona-cuscinetto orientale. Prima ancora che la seconda guerra mondiale finisse, Churchill parlò chiaro a Fulton: «Se vogliamo evitare un’altra guerra o evitare di perderla, dobbiamo rimuovere un’altra tirannide e costruire una catena politica e militare che stringa da presso la cortina di ferro». Di questa simmetria bellica, però, Pons non si avvede. I comunisti gli paiono vittime predestinate di una «mitologia» (come a ogni piè sospinto ripete) dove« la guerra è il codice autentico della politica. Poste queste premesse, tutto viene di conseguenza.
Limitiamoci a due esempi significativi, cominciando dal più classico dei «casi di scuola»: il patto Ribbentrop-Molotov. Pons censura la «condotta passiva» dell’Urss dinanzi all’aggressività di Hitler verso la Cecoslovacchia e scrive che dopo la Conferenza di Monaco Stalin fu preda dell’«ossessione che le potenze occidentali avessero lasciato a Hitler mano libera verso est». Da qui (oltre che da mire espansionistiche) ritiene derivasse la «scelta» sovietica per la non-aggressione. Ma quella di Stalin era davvero un’analisi infondata? Non erano segnali allarmanti il rifiuto di Francia e Inghilterra di prendere parte alla guerra di Spagna e il fatto che, non prestando ascolto a Mosca, Londra e Parigi non avessero mosso ciglio per impedire l’Anschluss dell’Austria? L’appeasement alleato a Monaco non incoraggiava forse i colonnelli polacchi, re Carol e l’ammiraglio Horthy a preferire Hitler a Stalin (favorendo, oltre tutto, il progetto di trasformare l’Europa centro-orientale in una zona di persecuzione antiebraica)?
Pons parla dell’«incapacità delle democrazie occidentali di fronteggiare con vigore l’ascesa di Hitler» e liquida in una battuta il fatto che la proposta sovietica di alleanza a Gran Bretagna e Francia fosse «trattata con sufficienza dagli occidentali». Oltre a dimenticare che la stessa Polonia negò un patto di difesa comune al governo di Mosca, mostra di escludere che (in considerazione del carattere anticomunista e antisemita dei piani di Hitler) inglesi e francesi abbiano ritenuto di indebolire la Germania deviando verso est le sue pulsioni imperiali. È una tesi discutibile, ma accreditata: non sarebbe stato opportuno motivarne il rigetto? Soprattutto, Pons non accenna alla necessità (per l’Urss) di prendere tempo e spazio per costruire le premesse militari per reggere l’urto di un attacco tedesco e giapponese, dopo che le purghe avevano decapitato l’Armata rossa dei più valenti comandanti. Né accenna al fatto che la divisione della Polonia stabilita nei «protocolli segreti» impedì inizialmente che 300mila ebrei cadessero sotto il giogo dei nazisti. Tutto si spiega, ai suoi occhi, con la volontà di Stalin di avere «mani libere» nel perseguire gli «obiettivi geopolitici espansionistici dell’Urss nell’Europa centro-orientale», che «potevano trovare interlocutori a Berlino, non a Londra».
Cosa fu dunque il trattato di non-aggressione ? Un pactum sceleris tra due tiranni e la riprova della strumentalità dell’antifascismo sovietico. Di più: «fu l’espressione internazionale del culto della potenza e dell’idolatria dello Stato in Urss» (in contrasto con i «precetti dottrinari di Marx e di Engels», come se la coerenza con tali «precetti», qualunque cosa siano, imponesse di prescindere dal quadro politico interno e internazionale). Analisi stupefacente, peraltro smentita dal riconoscimento della razionalità strategica di una decisione che all’Urss «garantiva uno spazio di sicurezza territoriale ritenuto cruciale nella prospettiva di un futuro coinvolgimento nella guerra».
Percezioni alterate?
Veniamo al secondo esempio: il dopoguerra. Fedele alla regola secondo cui nulla di buono può venire dal comunismo, Pons contesta la tesi secondo cui la rivoluzione d’Ottobre fornì al capitalismo «l’incentivo e la paura che lo portarono ad autoriformarsi» istituendo, dopo la seconda guerra mondiale, sistemi pubblici di welfare. Niente affatto: «l’impulso decisivo verso la costruzione del welfare democratico nacque dalla Seconda guerra mondiale e dalla distruzione del nazismo». Fu uno sviluppo endogeno, sulle cui cause non vale la pena soffermarsi, e semmai «la minaccia sovietica costituì uno stimolo negativo verso l’adozione delle politiche di welfare» in Occidente.
Insomma, tutto il bene da una parte, tutto il male dall’altra. Si direbbe che per Pons il confronto bipolare non sia stato nemmeno un conflitto – o meglio: lo fu solo nella mente paranoica della leadership sovietica, intossicata dallo schema «clausewitziano». Credere che gli Usa giocassero sul terreno militare fu un sintomo di follia o il frutto di «percezioni» alterate. Peccato che, al di là delle «psicosi», i fatti accadevano. Cinque mesi dopo il discorso di Churchill a Fulton furono sganciate le atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Perché, se il Giappone era già allo stremo? Non c’entrava nulla la possibile partecipazione dell’Urss all’invasione del Giappone, decisa a Potsdam?
Sintomatico dell’ottica di Pons è come tratta (o meglio, si sbarazza) dell’aggressione di Saddam Hussein all’Iran negli anni ’80. Essa, scrive, «sembrava assecondare molto più gli interessi di Washington che non quelli di Mosca». Sembrava assecondare? Così poco conta per lo storico che a colui che Bush jr. avrebbe definito un «nuovo Hitler» il Pentagono avesse fornito ingenti armamenti? Visto che non lo fa Pons, lasciamo noi la parola a Bush sr., che nell’estate ’91 dichiara: «spero che la crisi del Golfo passerà alla storia come il crogiolo di un nuovo ordine mondiale» nel quale gli Stati Uniti rimarranno «il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali». Clausewitz dove abitava in quel momento?
Non si può certo dire che ne emerga un quadro confuso o anche solo sfumato. Tant’è che a Pons la memoria del comunismo appare «legata ad alcuni dei peggiori crimini contro l’umanità compiuti nel secolo scorso, prima che a qualsiasi altra cosa». Questo giudizio, posto a esergo del libro, illustra la greve cifra ideologica di tutto il suo discorso. Qual è infatti il punto? Forse non si verificarono crimini inauditi? Forse quanto accadde ai contadini e alle vittime delle purghe può essere giustificato ricorrendo ad analogie o a paragoni? Niente affatto.
Miti e fantasie
L’orrore per i massacri della collettivizzazione è fuori discussione. Il Gulag rimane una colpa inescusabile e assoluta, e così il terrore e la negazione di ogni libertà politica, civile e religiosa. Di tutto ciò Stalin porta una personale responsabilità , tanto più grave per i mali che generò, a cominciare dall’apatia delle masse e dal cinismo delle burocrazie. Tanta violenza dispotica interroga in primo luogo i comunisti, pone loro questioni drammatiche, prima fra tutte la contraddizione tra la necessità di un potere formidabile, all’altezza di uno scontro di classe che permane a valle dell’evento rivoluzionario, e l’opposta domanda di liberazione della società da oppressione e violenza.
Ma la storia del comunismo fu solo un cumulo di violenza e follia? Ritenerlo è insensato. Lasciamo stare che senza il «mito della guerra patriottica» come lo definisce Pons, la storia del ‘900 sarebbe andata diversamente. Lasciamo stare le fantasie sulla spontanea evoluzione progressiva del capitalismo (che non spiegano l’inversione di tendenza negli ultimi trent’anni) e il fatto che la storia del «comunismo internazionale» fu in larga misura un conflitto durissimo contro un avversario niente affatto mite. Il punto è che il comunismo novecentesco non fu solo un sistema monocratico e centralizzato, come pretende Pons. In buona parte del mondo, a cominciare dall’Europa, si trattò di un gioco ben più complesso, che vide i comunisti battersi da protagonisti nella costruzione della democrazia e nella difesa dei diritti sociali e del lavoro, della giustizia sociale e della pace. La storia del Pci è un esempio paradigmatico (e viene spontaneo pensare, per antitesi, alla ricostruzione offerta da Lucio Magri nel Sarto di Ulm). Pons respinge l’idea che le origini dei partiti comunisti occidentali si trovino «nelle rispettive società nazionali» e sostiene che «non soltanto la prassi, le finanze, i modelli organizzativi, ma anche la cultura politica, il linguaggio, l’identità dei comunisti furono ampiamente dipendenti e plasmati dal rapporto con il partito bolscevico e con lo Stato che esso edificò».
Considerazioni inusuali
Fa impressione leggere queste righe, soprattutto a noi italiani, considerato il radicamento della cultura marxista e comunista nella storia italiana sin dall’800 (si pensi a una figura emblematica come Labriola), senza il quale il contributo decisivo dei comunisti alla lotta di massa antifascista e alla costruzione della democrazia repubblicana sarebbe incomprensibile. Fa molta impressione (sia consentita una considerazione inusuale) leggere simili affermazioni in un libro pubblicato da una casa editrice la cui storia (sino agli anni ’80) è la confutazione in re ipsa di questa tesi. Ma che oggi Einaudi contribuisca alla diffusione sua (e, più in generale, di una rilettura del ‘900 in chiave francamente anticomunista) colpisce, non stupisce. È il sintomo di cosa sia diventata molta editoria «di cultura» in Italia, e lo stesso può dirsi per tante istituzioni pur nate per «sviluppare e diffondere» il pensiero comunista.
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