Storia di un ragazzo malato di autismo e di un fratello ritrovato

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NAPOLI — Iole è una donna speciale e suo figlio Mimmo lo sa. Anche se Mimmo soffre di autismo precoce psicotico grave, sa che sua madre ha una marcia in più. Perché se oggi lui vive una vita normale, è un uomo di 56 anni autonomo che gira per Napoli da solo, frequenta librerie e circoli culturali, prende la funicolare e la metropolitana come se non avesse quella terribile malattia, lo deve solo alla mamma. 
«Ci sono stati giorni in cui speravo che Mimmo non si svegliasse più, in cui pregavo Dio che se lo portasse via un minuto prima di me, in cui pensavo di farla finita», ricorda Iole Ioele, 74 anni portati benissimo. L’inferno di Iole comincia nel 1959. Mimmo, un bambino sano, precoce e molto intelligente, una mattina si sveglia diverso dal solito: «Sfuggiva il mio sguardo, chiamava me “io” e se stesso “tu”. Mimmo aveva perso la sua personalità . I bambini autistici rifiutano la realtà , si comportano da schizofrenici senza esserlo, e poi lo diventano davvero. E i primi sintomi compaiono all’età  di tre anni».
Oggi la signora Ioele conosce bene la materia, ma nel 1959 aveva solo 22 anni e un diploma di maestra elementare. «Ai miei occhi era chiarissimo che ci fosse qualcosa che non andava, ma tutti la pensavano diversamente: mio marito, la mia famiglia, i luminari che avevo consultato. Per la società  di allora un bambino o era intelligente o era scemo. È stato pazzesco. Il padre lo redarguiva continuamente, lo maltrattava, era deluso. Mi accusava di non saperlo educare. Il matrimonio è andato a rotoli e lui si è dileguato. Non ha retto, succede quasi sempre che uno dei due genitori fugga. Avevo contro anche i miei genitori. Mi dicevano di smettere di spendere tutti quei soldi con i medici. Non capivano che ad aspettare Mimmo c’era solo il manicomio».
Mimmo cresce e le cose peggiorano. «Un giorno scappa dall’asilo e io provo a rivolgermi all’Opera maternità  e infanzia, un istituto napoletano in cui andavano solo le persone più povere», racconta. E lì avviene la svolta: i medici ricoverano Mimmo, riconoscono che si tratta di autismo e indirizzano la mamma a Giovanni Bollea, il medico che ha rivoluzionato la psichiatria infantile in Italia: «La prima cosa che il professore mi raccomandò fu di non pensare: “tanto non potrà  mai diventare come gli altri”. Mi fece capire che qualunque cosa ci fosse da recuperare sarebbe stata una grande conquista e così ho ingaggiato una mia battaglia personale».
Mimmo si rifiutava di mangiare cibi solidi, Iole lo ha nutrito con un tuorlo d’uovo, un bicchiere di latte e qualche pezzo di cioccolato fino all’età  di 9 anni e mezzo. «Voleva camminare solo sui miei piedi, non mi guardava mai negli occhi, era aggressivo, faceva scenate per la strada, ogni passeggiata era un incubo. Bollea consigliò di ricoverarlo all’Elaion di Eboli. Era un villaggio aperto, senza cancelli né sbarre, in cui i ragazzi vivevano in case con i tutor, andavano a scuola e in piscina da soli. Per me fu un colpo tremendo accettare il distacco. Avevo un negozio di abbigliamento femminile in città  e ogni giorno andavo fino a Eboli solo per guardarlo da lontano e respirare la sua stessa aria». 
Ma all’Elaion Mimmo ritrova la vita. Nessuno ha paura di lui e lui capisce che non deve avere paura del mondo. Quando esce dopo quattro anni, è un ragazzo nuovo. Mamma Iole comincia a leggere, a studiare, segue diligentemente i consigli di Bollea, porta il figlio a fare psicoterapia tre volte alla settimana e lei stessa si sottopone a sedute di sostegno, si prende ogni onere economico. Rinuncia a tutto, anche a ricostruirsi una famiglia, lei che era bella da togliere il fiato. Trova un impiego a Mimmo e lo fa a modo suo: «A Secondigliano c’era una tipografia che aveva perso l’uso dei macchinari nel terremoto dell’80. Io mi sono offerta di aiutarli. A una condizione: dovevano prendere Mimmo con loro. Non chiedevo uno stipendio per lui, solo un lavoro tra persone perbene».
E poi accade quello che Frank Capra potrebbe definire un miracolo. Iole la chiama «magia»: «Un giorno di 20 anni fa entra nel mio negozio un ragazzo: “Lei non sa chi sono io”, mi dice. Invece lo avevo capito perché somigliava a Mimmo: era suo fratello. Il mio ex marito si era risposato e aveva avuto Antonio e ora lui era lì davanti a me». Accade l’inimmaginabile: Antonio si «innamora» di Mimmo, lo coinvolge, lo porta in giro con sé. Costringe anche il padre a fare i conti con lui. L’uomo è molto malato a causa di un ictus e Mimmo da quel momento non lo lascerà  mai più solo, lo accudirà  per nove lunghi anni, ogni giorno darà  il cambio alla seconda moglie del padre, si occuperà  delle medicine, gli terrà  la mano fino all’ultimo giorno. 
La devozione di Mimmo al padre è toccante, ancora di più se messa in rapporto con l’assenza dell’uomo. «Lui non ha mai fatto un regalo a Mimmo, neppure una biro a Natale, non ha pagato mai le 70 mila lire stabilite dal tribunale per il mantenimento, ha perso la patria potestà . Se si fosse occupato di lui avrebbe dovuto ammettere di avere avuto un figlio imperfetto».
L’incontro con il fratello Antonio cambia la prospettiva della vita di Iole e Mimmo. «Antonio oggi è un dirigente di 38 anni: lui e la moglie, una ragazza straordinaria, hanno voluto che io facessi da baby sitter al loro figlio, e per me è stato un dono, una gioia infinita. Oggi posso chiudere gli occhi tranquilla perché so che questa coppia si prenderà  cura di Mimmo. Io che ho conosciuto la disperazione, ho trovato la serenità ».
*(giornalista free lance
e caporedattore di «Oggi»)


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