Sparita da valli e fabbriche in Piemonte ora la Lega trema “I diamanti ci costeranno cari”
Torino. Quando si viaggia sulla vecchia statale del Moncenisio, la terra delle rivolte No Tav, può capitare di fermarsi a un bar per bere un vinello da denuncia ai Nas.
E lì, calando lo sguardo dalla terrazza sul gomitolo fumante di caotica massa urbana, sulle cave dell’autostrada a cielo aperto, sulle palazzine sghembe da cui spunta a fatica la cime di un campanile, può capitare di chiedersi: «Ma che cosa ci sarà da conservare in Val di Susa?». Però si capisce che la rivolta No Tav è ormai una festa popolare, l’ultima occasione di sentirsi al centro dell’attenzione, il sussulto identitario di una ex valle montana avviata a disperdersi nell’anonimato della periferia universale. E allora, dov’è la Lega? Un tempo sarebbe stata la sua scena di battaglia. Erano quelli i suoi luoghi, i temi, i miti, le facce delle origini, lo stesso spirito indomito e arcaico un po’ da villaggio di Asterix. La Lega è nata dalle Alpi, s’è ingrossata per la pedemontana e ha finito per invadere le città della grande pianura, proprio come il corso del dio Po. Ora, in Val di Susa sono passati tutti i venditori di fumo del ribellismo, ma non le camicie verdi. I nuovi populisti hanno usato i trucchi del primo Bossi, l’astuzia di capitalizzare consensi cavalcando proteste magari giuste, ma ultra locali e perciò destinate al fallimento. Nell’era globale non sarà certo la fiera rivolta di una valle alpina a fermare la macchina d’interessi miliardari in marcia da Lisbona a Kiev.
Non c’è la Lega e il fantomatico sindacato padano di Rosy Mauro neppure fra gli operai dell’Alenia che sventolavano il cappio all’arrivo del ministro Fornero, per minacciare il suicidio, non la forca ai corrotti. Dal cappio dei deputati leghisti sventolato alla Camera nel ‘93 in piena tangentopoli, al cappio degli operai di Torino, a quelli tragici degli imprenditori suicidi, passano vent’anni di illusioni e inganni del Nord. La Lega dov’è?
La Lega sta nei palazzi del potere, nel cuore di Torino, in attesa della nuova sede progettata da Massimiliano Fuksas, quaranta piani nell’area del Lingotto, roba da far impallidire di vergogna il Pirellone di Milano. A palazzo si trova benissimo, a giudicare dall’aria estasiata del governatore Roberto Cota, nonostante gli scandali e la crisi. Cota è il più democristiano dei capi leghisti, bravissimo nel mediare fra chiunque, in buoni rapporti all’interno con il cerchio magico e con i maroniani, all’esterno con Berlusconi e Monti. Cota è la negazione del piemontese rigido. Del resto, col Piemonte non c’entra quasi nulla. E’ figlio di pugliesi ed è molto legato a Novara, dove secondo il maestro Gianni Brera vive un popolo di «liguri che imitano i milanesi». Parlo mezzora con lui e non ritrovo una frase significativa sul taccuino. Molto più interessante è la signora accanto, l’assessore al bilancio Giovanna Quaglia, della quale si dice che sia il vero governatore del Piemonte quando Cota è a Roma, all’estero o in televisione, quindi in pratica sempre.
Simpatica e ironica come molti astigiani, Giovanna Quaglia è il classico tipo del leghista intristito dal governo e nostalgico della Lega di lotta. «Non mi diverto per niente. L’autista non lo voglio, prendo il treno da Asti, lo stipendio è troppo e dovremmo tagliarlo. Soldi non ce ne sono e ogni mattina mi tocca di dire no a uno scuola bus, all’assistenza per gli anziani, all’assunzione di un precario, di solito quello che manda avanti l’ufficio. Rimpiango la vita da militante, i tempi dei gazebo». Sospira sull’insalatina dietetica e prosegue: «Quando siamo andati a Roma nel ‘92 ero una ragazza e mi hanno preso per le rassegne stampa. La sera andavamo tutti in pizzeria, ma tutti cercavano un tavolo lontano dal capo, perché Bossi faceva delle ramanzine micidiali sulle spese, le ricevute mancanti, i soldi sprecati. Soltanto alla fine parlava di politica, segnando le strategie della Lega sui tovaglioli a quadretti. Tutti i parlamentari vivevano in palazzine anonime alla periferia della capitale, affittate dal partito a prezzi da studente della Sapienza. Ora leggo dei diamanti di Belsito, dei figli di Bossi, della casa di Calderoli al Gianicolo, con vista su Roma, e mi viene il magone». Ultimo magro boccone e considerazione finale: «La diversità leghista era un valore autentico, la gente non ci perdonerà queste brutte storie. Ma se pure la Lega dovesse uscire sconfitta, non significherebbe la fine della questione del Nord».
Già , la questione settentrionale, l’uovo di Colombo della politica italiana. L’averla soltanto messa in scena, col sottofondo del “Va’ pensiero”, senza combinare nulla di concreto, ha garantito alla Lega vent’anni di successi elettorali. «Gira e rigira le cifre son quelle» dice il sindaco Piero Fassino: «Settanta per cento del Pil e del prelievo fiscale, ottanta per cento d’investimenti dall’estero e di esportazioni, il doppio degli immigrati rispetto al resto d’Italia. Bisogna essere ciechi per non vedere». Ma cieca, sorda e muta è stata la sinistra rispetto alla questione settentrionale in tutti questi anni. La ragione provo a chiederle alle teste più lucide del riformismo italiano, le meno ascoltate. Massimo Cacciari l’aveva detto, come sempre, ma stavolta è difficile non dargli ragione. «Se avessimo fatto l’Ulivo del Nord, a suo tempo, oggi avremmo praterie da percorrere. Non si è voluto, non si è capito, non si è fatto. Ora c’è un anno di tempo per mettere in campo una vera proposta riformista, bloccare Sergio Chiamparino sulla soglia dell’istituto San Paolo e affidargli il progetto».
Sergio Chiamparino si trova fisicamente sulla soglia dell’istituto San Paolo, in procinto di diventare presidente della fondazione. A proposito, com’è passare da comunista a banchiere? «Quale banchiere? Andrei semmai a dirigere una delle più grandi onlus d’Europa». Ma se le offrissero davvero di riprendere il progetto del centrosinistra del Nord rinuncerebbe? Chiamparino sorride: «Tanto non accadrà . Quel treno la sinistra non vuole proprio prenderlo, e dire che continua a passare. Anche ora ci sarebbe l’occasione storica di separare la questione settentrionale dalle vicende della Lega, che bene o male, molto più nel male, l’ha rappresentata finora. Ma non vedo i segnali di una svolta. E’ un peccato, anzi una tragedia. Il Nord rimane un laboratorio formidabile di riformismo sociale, ma non politico. Se si prende il treno da Torino a Trieste, i vecchi treni, non l’alta velocità , e ci si ferma a ogni tappa, si viene a contatto con una società meravigliosamente vitale. Esperienze straordinarie di gestione aziendale, di cogestione si direbbe in sindacalese, fra lavoratori e industriali, che se applicate su vasta scale farebbero impallidire il famoso modello tedesco. Altro che il vecchio conflitto in scena fra Fiom e Marchionne! E’ questa la parte internazionalizzata della nostra economia, il futuro del Paese. La questione di fondo oggi è la stessa di vent’anni fa, chi si prende la rappresentanza di questi problemi, è destinato a vincere e a governare fino al 2030».
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