Soldi degli immigrati all’estero in crescita nonostante la crisi

by Editore | 7 Aprile 2012 15:53

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Tanti soldi, 7,4 miliardi, lo 0,47 per cento della ricchezza nazionale, lasciano il Paese, prendono strade lontane, seguono le vie dell’Asia. Arrivano in rotoli di euro a un’agenzia di money transfer dell’Esquilino, a Roma, e si materializzano dall’altra parte del globo, in yuan cinesi, pesos filippini o taka del Bangladesh, diventano fonte di sostentamento per tre, quattro, sette persone, famiglie intere.
Quello che racconta il nuovo rapporto della Fondazione Leone Moressa (specializzata in economia dell’immigrazione) sulle rimesse in Italia è una storia di aiuti allo sviluppo, ma anche di integrazione da migliorare. Il primo dato. Nel 2011 il denaro che gli stranieri regolarmente residenti in Italia hanno inviato alle loro famiglie di origine è aumentato, nonostante la crisi: più 12,5 per cento rispetto al 2010, che aveva fatto registrare invece una leggera flessione (6 miliardi e mezzo di euro contro i 6,7 del 2009).
Come si spiega? «Innanzitutto, semplicemente, con l’aumento degli immigrati in Italia», risponde Valeria Benvenuti, ricercatrice della Fondazione Moressa. Gli ultimi studi (Caritas e Ismu) li contano in 5 milioni, irregolari esclusi.
C’è poi una spiegazione «tecnica», aggiunge Benvenuti, che è anche il risultato di una scelta di politica internazionale. È addirittura la Banca mondiale ad aver dato l’indicazione di rendere più facile l’intermediazione monetaria. «Le rimesse costituiscono uno dei fattori che possono portare alla crescita delle economie più arretrate — sottolinea il rapporto —, in quanto il denaro viene inviato direttamente alle famiglie che vivono in una condizione di bisogno», eludendo inefficienze e corruzioni che spesso deviano i finanziamenti di Stato. È successo anche in Italia, quando era un Paese di emigranti, al punto che gli storici hanno definito le rimesse dei connazionali all’estero «l’arma segreta» della nostra crescita economica e del decollo industriale, in particolare a inizio Novecento, in età  giolittiana (si veda il volume sulle Migrazioni della Storia d’Italia Einaudi). Vero anche in epoca recente, se si considera che l’anno del sorpasso, tra rimesse dall’estero e soldi in uscita, è appena il 1998. 
Tornando all’oggi, Benvenuti fa notare che di agenzie di money transfer ne sono sorte sempre di più (molte per iniziativa di imprenditori stranieri), il risultato è che spedire euro nel mondo attraverso i canali ufficiali, oltre che più economico, è diventato più accessibile. Nel complesso, si fa di più: e i ricercatori registrano un flusso maggiore. Restano escluse dal conteggio, avvertono gli studiosi, le consegne «informali» (che non significa illegali): attraverso familiari, conoscenti, corrieri alternativi che non lasciano traccia (e che qualcuno stima altrettanto consistenti quanto i canali formali).
Chi risparmia e spedisce di più? Certamente i cinesi (oltre 2,5 miliardi), poi i romeni (quasi 900 milioni), a sorpresa molto i filippini seguiti dai marocchini, bengalesi e senegalesi. Sono risorse che si sottraggono al Paese? «In effetti sono soldi tolti a un potenziale consumo — risponde Benvenuti —, denari che, se ci fosse maggiore integrazione e minor legame con la famiglia di origine, sarebbero spesi qui». Va letto così allora, spiega la ricercatrice, il dato delle rimesse pro capite nel complesso più basse al Nord (dove gli stranieri risultano più radicati) che al Sud (dove molti migranti sono lavoratori stagionali, senza famiglia, o comunque più concentrati a risparmiare e ad aiutare i parenti in patria). In quest’ottica, l’integrazione diventa una spinta ai consumi. Dunque all’economia italiana.

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