Sepàºlveda: “Quando il mio amico Gabo fu scambiato per il suo gemello brutto”

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Il sei marzo, quel ragazzo che si chiama Gabriel Garcà­a Mà¡rquez, Gabo per gli amici, ha compiuto ottantacinque anni e vi invito, in suo omaggio, ad ascoltare questa storia che solo pochi intimi conoscono.
Nel 1990, Gabo e io ci incontrammo a Santiago: lui tornava in Cile dopo aver giurato che non vi avrebbe più messo piede finché la dittatura fosse rimasta al potere, io tornavo dall’esilio.
Gabo era stato incaricato di consegnare il premio per la Difesa dei Diritti Umani al vescovo luterano Helmut Frenz, un tedesco che aveva rischiato la vita per i perseguitati, e dato che io stavo rientrando dopo tanti anni, i compagni della rivista Anà¡lisis, organizzatori del premio insieme all’Academia de Humanismo Cristiano, avevano scelto me come anfitrione di quel magnifico e venerato scrittore.
Dopo tre giorni che eravamo a Santiago, mentre facevamo colazione con frutti di mare al mercato centrale, Gabo mi raccontò che una volta il suo caro amico Pablo Neruda lo aveva invitato a mangiare in un posto di cui non ricordava il nome, ma che aveva i tavoli e le sedie sulla sabbia di una spiaggia dove i granchi passeggiavano indifferenti all’appetito dei commensali e i nobili gronghi, i graziosi sgombri, le flemmatiche sogliole e altre specie di mare saltavano con piacere sul tavolo.
Vista la descrizione, gli dissi che doveva trattarsi per forza della Caleta El Membrillo, a Valparaà­so, e che, pur non sapendo se il posto era ancora come lo ricordava, potevamo andare a mangiare sul mare.
Partimmo con una vecchia Simca presa in prestito da un compagno di Anà¡lisis e due ore dopo eravamo in un ristorante che, in effetti, aveva ancora i tavoli e le sedie sulla spiaggia.
Ci sedemmo e ordinammo un antipasto di locos in salsa verde e una brocca di dissetante vino pipeà±o che aveva tutto il sapore del Cile meridionale. Il cameriere ci mostrò una cesta con dei pesci che ancora guizzavano, noi scegliemmo un grongo dalle squame argentee, gli chiedemmo di prepararlo alla griglia soltanto con un po’ d’aglio e cominciammo a mangiare.
Eravamo tutti presi a gustarci i frutti di mare, quando mi accorsi che un tizio, seduto insieme a una donna a un tavolo vicino, guardava Gabo con insistenza. Capii che l’aveva riconosciuto e sperai che si trattasse di una persona discreta. Avvertii Gabo, ma lui replicò: «Non importa, basta che non si metta fra me e i locos».
Continuammo a mangiare, passammo dai locos al saporito grongo del Pacifico; il tizio però ci guardava con sempre maggior insistenza, finché non riuscì più a contenersi, si alzò e venne verso di noi.
Io fui completamente ignorato. L’uomo si chinò verso Gabo e senza smettere di fissarlo gli disse: «Amico, di sicuro te l’hanno già  detto tante volte, ma tu sei uguale preciso a Garcà­a Mà¡rquez. È incredibile quanto vi somigliate».
Gabo, senza perdere la calma, gli rispose che in effetti glielo avevano già  detto in svariate occasioni.
Il tizio non se ne andava, fissava Gabo e scuoteva incredulo la testa, così mi rivolsi a lui in tono energico: «Sì, gli assomiglia, lo sappiamo, adesso però il mio socio e io stiamo trattando un affare, perciò ti saremmo grati se tornassi al tuo tavolo».
L’uomo se ne andò con una smorfia di disprezzo, ma continuò a fissarci con insistenza da lontano commentando con la sua accompagnatrice. Come temevo, di lì a poco era di nuovo da noi. Mi ignorò ancora una volta, posò una mano sulla spalla di Gabo e guardandolo negli occhi dichiarò: «Senti, amico, non so se sai che alla televisione c’è un concorso che si chiama “Cerca il sosia”. Se ti presenti, vinci, sono sicuro, e io ti posso anche raccomandare a un mio amico che lavora lì. Vinci di certo, cazzo, sembri il fratello gemello di Garcà­a Mà¡rquez. È incredibile!».
Gabo mi guardò e pronunciò una frase che avrebbe potuto benissimo appartenere al colonnello Aureliano Buendà­a, ma che io tardai vari secondi a capire: «Se stai mangiando del pesce o mentendo, ricordati di stare bene attento».
In altre parole, non aveva intenzione di staccarsi dal grongo e toccava a me far sloggiare il tizio.
«Sì, amico, è uguale preciso a Garcà­a Mà¡rquez e ti siamo grati per averci detto del concorso. Andremo in televisione, anch’io sono sicuro che il mio socio vincerà , ma adesso, per favore…».
Il tizio bofonchiò un okay e tornò al suo tavolo.
«Non parlavi mica sul serio riguardo al concorso» borbottò Gabo mentre ordinavamo mote con huesillos, il dessert cileno per antonomasia.
Stavamo maledicendo il Nescafé che ci avevano servito alla fine, quando il tizio e la sua accompagnatrice si alzarono in piedi per andarsene, ma prima di uscire lui tornò da noi e buttò lì una frase che merita di passare alla storia. Disse: «La somiglianza è davvero grande, non si può negare, ma a guardarti bene tu sei più vecchio e più brutto di Garcà­a Mà¡rquez».
Da quel giorno, ogni volta che ci vediamo, il mio caro, ammirato, venerato Gabo mi domanda: «Lucho, ti ricordi quella volta che ero più vecchio e più brutto di me stesso?».
Come potrei mai dimenticare questa storia, vissuta a fianco di un gigante che si chiama Gabriel Garcà­a Mà¡rquez, Gabo per gli amici?

Perdite irreparabili

Il dottor Emerson era orgoglioso di essere una persona avveduta, anche se nell’ambiente familiare si prendeva la libertà  di definirsi «cauto». Il dottor Emerson era sicuro che il suo talento nel precorrere gli avvenimenti fosse una questione di natura organica, un dono riservato agli spiriti vincenti che, per quanto innato, si doveva coltivare.
A tale scopo si appoggiò a biografie e pian piano scoprì, fra gli altri commoventi dettagli, che Federico il Grande vedeva nei suoi attacchi di gotta evidenti avvisi di contese territoriali con i francesi. Henry Ford, invece, considerava le sue rotule due oracoli infallibili e ogni cambiamento di umore osseo era un fattore chiave nella gestione dell’industria automobilistica. Nelson Rockefeller, da parte sua, praticava la lettura epidermica e bastava una minima traccia di irritazione in viso o di brufolo incipiente per allontanarlo dalla borsa.
Il dottor Emerson confidava nei vaticini offerti dalla sua abbondante villosità  nasale. In bagno, uno specchio rotondo che ingrandiva gli permetteva di studiare l’ispida vegetazione delle sue narici. Quando la vedeva uniforme sospirava compiaciuto e, mentre si preparava con estrema cura, si consentiva di sperare nella pace nel mondo. Ma se un pelo, un singolo pelo, spuntava insolente come le antenne di un insetto, esclamava: «No, con me non funziona, caro Gregor Samsa». E subito lo potava con le forbici da baffi enumerando le precauzioni da adottare quel giorno.
Il sistema era quasi infallibile. Solo un difetto ne macchiava la perfezione: non gli diceva da quale parte si sarebbe presentata la situazione a rischio, per cui era costretto ad accollarsi, esprimendosi in percentuale, novantanove misure precauzionali superflue, con conseguente spreco di tempo ed energia, cosa che lo metteva di malumore.
Quella mattina, il dottor Emerson tagliò il mezzo centimetro di peli che gli spuntava dalla cavità  nasale sinistra e si mise a pensare a quali precauzioni prendere. Innanzitutto decise di rinviare la produzione della nuova linea di fazzoletti usa e getta. La snif S. p. A. era al primo posto nelle vendite dei fazzolettini classici a due veli, e forse il pelo-avviso si riferiva alla scarsa convenienza di lanciare sul mercato quelli più consistenti, «morbidi e porosi come la superficie lunare» secondo la pubblicità  ideata dall’ufficio marketing.
Mentre faceva colazione ascoltò il notiziario del mattino e venne a sapere con orrore che i terroristi non solo tenevano in ostaggio da più di due settimane un industriale del settore della carne, ma per di più ne avevano appena sequestrato un altro della plastica.
Il dottor Emerson ebbe un sussulto. Posò la tazza sul piattino e si diresse a precipizio in bagno. Davanti allo specchio, scoprì che anche dalla cavità  nasale destra spuntava insolente un pelo di qualche millimetro troppo lungo, rompendo la simmetria da spazzolino degli altri.
«Accidenti, se la scampo stavolta è davvero per un pelo».
Il dottor Emerson telefonò alla snif S. p. A. dando ordine che gli mandassero due guardie del corpo del servizio di sicurezza.
Il tragitto dal quartiere residenziale agli uffici della snif S. p. A., in centro, non presentò problemi e quando il dottor Emerson uscì dalla Mercedes blindata, nel parcheggio sotterraneo, sospirò compiaciuto. Immaginava la frustrazione dei cecchini nascosti in qualche edificio o l’ira dei rapitori che, seduti in un furgone rubato, avrebbero atteso invano il suo passaggio nei consueti viali.
Una volta nel suo ufficio, la segretaria si avvicinò diligente per sbrigare le prime incombenze. Gli consegnò la mazzetta dei giornali del mattino, che il dottore rifiutò con gesto sprezzante, e poi il vassoio con la posta.
Al dottor Emerson piaceva intuire il tenore delle lettere, prima ancora di aprirle con un tagliacarte di bronzo, leggendo i dati del mittente. Le buste allungate contenevano gli estratti conto bancari dei suoi conti correnti personali. Una lettera inviata dalla Svizzera era senza dubbio della figlia maggiore, che gli avrebbe parlato della mancanza di neve e sicuramente gli avrebbe chiesto un vaglia. Così, lasciò da parte la posta poco allettante, finché non arrivò a una busta rigonfia e senza mittente.
Il timbro era della città , di un ufficio postale di quartiere, e portava la data del giorno prima. La punta del tagliacarte stava già  sfiorando l’angolo della busta, quando la villosità  nasale gli provocò un preoccupante solletico.
«Ecco cos’era. Una lettera esplosiva. Criminali. Non si fermano davanti a niente» esclamò il dottor Emerson, posando la busta con tutte le cautele del caso.
La prima misura adottata dagli artificieri fu lo sgombero del palazzo e poi, con l’aiuto di un robot cingolato che chiamavano Charlie, munito di bracci con pinze e di un occhio videotrasmittente, passarono a manipolare la busta.
Nel sotterraneo, il dottor Emerson e un ufficiale di polizia seguivano le operazioni da un monitor a colori.
«Perché non la fanno scoppiare una volta per tutte?» domandò il dottore.
«Charlie costa milioni. Non possiamo distruggere il robot. Cercheremo di disinnescare il detonatore» rispose l’ufficiale.
La busta, passata da Charlie a una telecamera a raggi X, lasciava intravedere qualcosa che sembrava un foglio di carta piegato in quattro e una massa informe.
«Ammonite? Esplosivo al plastico?» chiese il dottor Emerson a disagio per il silenzio.
«Non lo sappiamo. È una sostanza troppo molle. Ordineremo a Charlie di aprire la busta».
«Era ora. Dopo tutto quel robot lo abbiamo pagato noi contribuenti».
Charlie infilò le sue dita-pinze in un angolo della busta rigonfia e le mosse come forbici. Più tagliava, più il dottor Emerson si avvicinava allo schermo per non perdere un dettaglio dell’esplosione. Ma non accadde nulla a turbare il silenzio dell’ufficio deserto.
Subito dopo Charlie estrasse una massa visibilmente vischiosa e gocciolante e la depositò sulla scrivania.
«Alfa Uno. Può entrare» ordinò l’ufficiale all’interfono.
Alfa Uno risultò essere un artificiere, dai movimenti lenti a causa della tuta antischegge. L’uomo entrò nell’ufficio e con gesti cauti prese in mano il foglio piegato in quattro.
Il dottor Emerson sentì l’insolente risata dell’artificiere e quando stava per domandarne le ragioni, infuriato, lo schermo gli sbatté in faccia un impareggiabile primo piano del foglio aperto.
Era scritto a mano a caratteri cubitali e diceva: «I suoi dannati fazzoletti snif non resistono a una buona soffiata. Imbroglione. Le allego tutto il moccio dell’ultimo raffreddore che mi sono ritrovato fra le dita. Non comprerò mai più i suoi prodotti».
Il dottor Emerson si portò pollice e indice di entrambe le mani alle narici. Poi, con un movimento brusco e deciso, si strappò due ciuffi di peli. E non gridò, malgrado il dolore provocato da quella depilazione selvaggia. Il dottor Emerson era un uomo di saldi principi e quell’autoflagellazione era il castigo che s’infliggeva per le perdite irreparabili.
© 2012 by arrangement with Literarische Agentur Mertin
© 2012 Ugo Guanda Editore S. p. a
(Traduzione di Ilide Carmignani)


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