Se ritorna la mano dello Stato
I Il modello oggi forse più in voga è quello del «capitalismo di Stato» cinese: una forma d’intervento pubblico molto più invadente di qualsiasi altro sperimentato dai giapponesi. Lo Stato possiede, in tutto o in parte, molti dei settori chiave e incanala i prestiti bancari verso le imprese che vuole favorire. Il tasso di cambio è irreggimentato, al pari dei flussi di capitale: questo avrebbe reso possibile, secondo molti osservatori, la straordinaria trasformazione della Cina da uno dei Paesi più poveri del mondo a un Paese che nel prossimo decennio promette di essere tra i più ricchi.
Eppure, a uno sguardo più attento, si dovrebbe notare che le differenze vengono spesso esagerate. Il modello anglosassone non ha mai consentito la completa liberalizzazione dei mercati. Il settore finanziario era soggetto a numerose forme di regolamentazione. Molteplici erano anche le forme di intervento nell’economia.
E non si può nemmeno tracciare una rigida linea di demarcazione tra le economie anglosassoni degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dell’Australia e il resto dei Paesi sviluppati. La Spagna — che molti economisti classificherebbero fra i sistemi basati su un modello socialdemocratico — ha registrato un boom edilizio altrettanto esplosivo di quello degli Stati Uniti. Le banche tedesche sono state direttamente coinvolte nel finanziamento dei mutui subprime americani e anche quelle francesi, come Bnp Paribas, trattano esattamente gli stessi prodotti di Goldman Sachs e J.P. Morgan.
In generale, stiamo parlando perciò di economie miste in cui sia il governo che il settore privato svolgono la loro parte. La Cina, in linea col suo passato comunista, è certo la più vicina al modello dirigistico, ma al di là della loro retorica liberista, le economie occidentali, compresa quella americana, restano caratterizzate da settori pubblici più ampi (e aliquote fiscali più elevate) di quanto non lo fossero nel XIX secolo. Ciò nonostante, le denunce degli effetti a lungo termine del modello anglosassone si sono basate proprio sul tema della disuguaglianza. I militanti di Occupy Wall Street sembrano privi di un programma coerente di riforma, eppure la loro principale rimostranza è che il sistema attuale è sbilanciato a favore dei ricchi, ovvero dell’1% della popolazione a scapito del restante 99%. Una denuncia che non proviene solo dai manifestanti: sono in molti a ritenere che le banche abbiano goduto di una posizione privilegiata; normali imprese come negozi e ristoranti possono tranquillamente fallire, ma non i sommi sacerdoti della finanza. (…)
È facile dimenticare che, fino a poco tempo fa, i gestori di banche e fondi d’investimento venivano visti come grigi funzionari. I banchieri erano considerati cittadini rispettabili e sobri, non i padroni del mondo. Solo verso l’inizio degli anni Ottanta i loro stipendi hanno cominciato a salire vertiginosamente rispetto a quelli di altri professionisti come ingegneri ed esperti di tecnologia.
Perché si è verificato questo cambiamento? Una spiegazione può essere ricercata nel modello «anglosassone»: Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno liberalizzato, contemporaneamente, i mercati finanziari dei loro Paesi, allentando inoltre i controlli sui capitali. Ciò ha permesso al denaro di circolare più rapidamente nel mondo e ai banchieri di ritagliarsi un compenso su qualsiasi transazione, come i croupier di un casinò. (…)
I ricavi della gestione di fondi, che sono legati direttamente al valore delle attività , grazie alle provvigioni basate sulla dimensione dei depositi amministrati, hanno registrato un fortissimo incremento in seguito all’incessante progressione dell’indice Dow Jones, passato dai 1.000 punti del 1982 ai 10.000 punti degli anni Novanta. Dietro a tutto questo c’erano le banche centrali dei Paesi sviluppati, che sono intervenute più volte tagliando i tassi di interesse quando i mercati vacillavano: come nel 1987, dopo la caduta del 23% dei titoli azionari durante il famoso «lunedì nero», e nel 1998, dopo il crollo del fondo speculativo Long-Term Capital Management. (…) Tuttavia, sostenendo finanziariamente i mercati delle attività , le banche hanno incoraggiato soltanto una maggiore assunzione di rischi creando nuove bolle speculative. I tagli dei tassi d’interesse, che seguirono il crollo della New economy fra il 2000 e il 2002, hanno portato direttamente al boom del mercato immobiliare negli Usa.
Inoltre, la crescita del settore finanziario è stata accompagnata da un’espansione sempre maggiore delle banche in rapporto alle economie dei loro Paesi — resa necessaria, in alcuni casi, dal fabbisogno di capitali per far fronte ai grandi volumi di scambi che si svolgono sui mercati. Il problema è che il sistema stava diventando assai più rischioso: le banche erano ormai «troppo grandi per fallire». Così, il debito bancario si è trasformato rapidamente in debito pubblico quando si sono sentiti gli effetti della crisi.
Le autorità di regolamentazione si sono trovate di fronte a due possibili approcci. Il primo consiste nel cercare di separare le attività rischiose dalle normali attività bancarie, come previsto dalla norma stabilita dall’ex presidente della Federal Reserve, Paul Volcker, che vieta alle banche l’attività speculativa con mezzi propri. Il secondo approccio consiste nell’esigere che le banche dispongano di più capitale, in modo da proteggere i propri bilanci dalle future e inevitabili recessioni. Ma il problema è che i titoli bancari hanno ancora basse quotazioni e non è facile persuadere gli investitori a sottoscrivere nuove azioni.
Nel lungo periodo, tuttavia, la ricapitalizzazione delle banche potrebbe andare incontro in qualche misura alle richieste del movimento Occupy Wall Street, rendendo meno frequenti i loro salvataggi, anche se è difficile credere che un governo potrebbe mai permettere il fallimento di una banca d’importanza strategica. La ricapitalizzazione, inoltre, ridurrebbe i margini di profitto delle banche e così pure, col tempo, quei premi scandalosi distribuiti ai loro dirigenti.
In Gran Bretagna, il malumore verso i banchieri ha sollecitato l’imposizione di un’aliquota del 50% sui redditi più elevati, una tassa sui bilanci bancari e un pubblico dibattito sui bonus dei dirigenti di banche di proprietà statale. Chi ama investire nei fondi private equity forse non potrà più beneficiare della favorevole combinazione tra credito facile e rapido sviluppo dei mercati delle attività . Nei prossimi anni, i peggiori eccessi del modello anglosassone potrebbero così trovare un freno. Il pendolo è tornato a oscillare dalla liberalizzazione verso una maggiore regolamentazione.
I problemi più grandi non riguardano esclusivamente i Paesi anglosassoni, ma sono diffusi in tutte le economie sviluppate. I rapporti fra debito e Pil sono elevati, che questo derivi da un’espansione bancaria spericolata (come in Irlanda), da un boom dei consumi (come in America) o da governi incompetenti (come in Grecia). Ma, oltre a questi debiti pubblici, i governi hanno fatto altre promesse di carta ai loro cittadini sotto forma di prestazioni pensionistiche e sanitarie.
È ormai sempre più chiaro che non tutte queste promesse potranno essere mantenute. E ciò avrà conseguenze che domineranno la vita politica nei prossimi 10-20 anni mettendo i ricchi contro i poveri, i vecchi contro i giovani, i dipendenti del settore pubblico contro i contribuenti e un Paese contro l’altro. I problemi saranno aggravati dal peggioramento della situazione demografica, specialmente in Europa, con i lavoratori che dovranno sostenere i figli del baby boom quando andranno in pensione. Queste difficoltà sono ancor più acute all’interno del modello socialdemocratico che non di quello anglosassone, dove le tendenze demografiche sono migliori. Basta guardare la Grecia, dove la rete di protezione sociale costruita nel dopoguerra si sta sfilacciando a causa dei vincoli imposti dalle politiche di austerità fiscale. Forse queste generose prestazioni non sono più possibili in un mondo esposto alla minacciosa concorrenza dell’Asia. E va osservato che la democrazia è stata messa a dura prova da questa situazione: sia la Grecia che l’Italia hanno governi guidati da primi ministri non eletti. Se guardiamo avanti, vediamo che non è soltanto il modello anglosassone ad aver bisogno di riforme.
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