by Sergio Segio | 18 Aprile 2012 6:36
Il governatore Dannel Malloy del Connecticut è il 17esimo della lista: la sua firma è l’ultimo atto, dopo il voto dell’assemblea legislativa locale, per abrogare la pena di morte. La condanna capitale si sta ritirando lentamente, uno Stato alla volta. Nel Nordest degli Stati Unitiè praticamente scomparsa. Il ritmo dell’abbandono accelera: cinque Stati negli ultimi cinque anni, con dei “pezzi grossi” come New York, New Jersey, Illinois, New Mexico. Quei 17 Stati dove la massima pena ormai è l’ergastolo sono ancora in minoranza, certo. E lo squilibrio territoriale disegna “due Americhe”, divise esattamente come ai tempi della guerra civile. Nel profondo Sud la condanna a morte resiste, e non solo sulla carta, ma con un ritmo di esecuzioni sostenuto. Tuttavia questa spaccatura – politica, etica, religiosa – potrebbe esaurirsi.
La novità è segnalata dal referendum che si terrà in California.
Dalla West Coast emerge una “destra abolizionista”. Insensibile ai tradizionali argomenti umanitari, quest’ala conservatrice vuole liberarsi della pena capitale per un’altra ragione, molto pragmatica: costa troppo. In un’era di austerity, con il Tea Party che incalza dal basso e la base repubblicana che vuole tagli spietati alla spesa pubblica, il “braccio della morte” è diventato un lusso che l’America non può più permettersi.
Sembra incredibile, ma l’ergastolo fa risparmiare.
La storia della pena capitale negli Stati Uniti è già ricca di colpi di scena, avanzatee ritirate. L’ultimo ciclo storico, favorevole alle esecuzioni, fu aperto dalla Corte suprema quando nel 1976 autorizzò gli Stati a ripristinare una condanna che era stata di fatto accantonata. Nei 35 anni successivia quella sentenza ci sono state 1.278 esecuzioni. Però dal 1999 in poi il declino è netto: il Death Penalty Information Center indica in quell’anno il picco storico (98 esecuzioni), dieci anni dopo si erano quasi dimezzate (52) e nel 2011 erano scese a 43. «Il declino indica un trend- dice Richard Dieter che dirige quel centro – è evidente che il sostegno dell’opinione pubblica alla condannaa morte sta arretrando». La pena capitale resta comunque in vigore nelle legislazioni di 33 Stati Usa, oltre che a livello federale: dove può essere applicata ad esempio nei casi di terrorismo.
E’ un conteggio da aggiornare continuamente, perché la frontiera continuaa spostarsi in favore degli abolizionisti. Tra gli Stati che hanno in discussione l’abrogazione della condanna capitale figurano Maryland, Montana, Kansas, Kentucky, Washington, Ohio, Oregon, Pennsylvania. Ci proveranno, almeno a discuterne, perfino due grandi Stati del Sud: Floridae Georgia. Quello del Sud è il fronte più ostico. Lo riconosce una esponente dell’abolizionismo umanitario, Denny LeBoeuf che dirige il Capital Punishment Project presso la più grande ong schierata in difesa dei diritti civili, l’American Civil Liberties Union (Aclu). «Negli Stati che appartennero alla vecchia Confederazione sudista- dice- la fine della pena di morte non è dietro l’angolo, questo purtroppo non lo può credere neppure un ottimista patologico».
La storica discriminante NordSud si sovrappone alla dimensione razziale di questa pena. I numeri sono eloquenti. Da una parte dicono che dal 1976 ad oggi si sono eseguite solo 4 condanne nel Nordest (dove domina la cultura progressista del New England), 75 negli Stati “liberal” della West Coast inclusa la California, contro le 1.060 esecuzioni avvenute nel Sud. In quanto allo squilibrio razziale: il 35% dei condannati al patibolo che hanno ricevuto la scarica elettrica o l’iniezione letale, sono neri; e questo mentre la componente afroamericana rappresenta solo il 12,6% della popolazione americana. La massima probabilità di subire l’esecuzione, statisticamente si verifica nei casi in cui l’imputato è nero per un crimine la cui vittima era bianca.
Un’altra serie statistica sconvolgente riguarda gli errori giudiziari, identificati da quando è invalso l’uso sistematico degli esami del Dna per il riesame delle esecuzioni: trai condannatia morte che sono finiti al patibolo negli ultimi 40 anni, ci sono 123 casi comprovati di innocenti. Postumi.
Errori giudiziari a ripetizione, razzismo e squilibrio etnico: questi sono gli argomenti forti di una campagna umanitaria, portata avanti da un ampio schieramento nel mondo intero (spicca il ruolo della Comunità di Sant’Egidio).
Finora però questi temi faticavano a fare breccia nell’opinione pubblica conservatrice. La novità , ancora una volta, può arrivare dalla California. Quello che viene considerato lo Stato “liberal” per eccellenza, in passato ha riservato delle sorprese clamorose anche di segno opposto. Sul finire degli anni Settanta proprio la California fu un laboratorio sperimentale di due trionfali operazioni conservatrici: la rivolta anti-tasse reaganiana; e la riscossa della pena di morte. Nel 1978 vinceva il più celebre referendum californiano detto Proposition 13: stabilì un tetto alla pressione fiscale, dando il via ad un vasto movimento di rivolta del contribuente cavalcato dalla destra, di cui gli epigoni si vedono oggi nel Tea Party. Sempre nel 1978 in California vinse anche la Proposition 7, che ripristinò la pena di morte autorizzandone un’applicazione fra le più vaste e severe di tutti gli Stati Uniti. I promotori della Proposition 7 furono i due esponenti del partito repubblicano John e Ron Briggs, padre e figlio, con l’assistenza del giurista Donald Heller. Da allora sono passati 34 anni, e nel prossimo mese di novembre gli stessi Briggs junior e Heller sottoporranno all’elettore californiano un nuovo referendum. Stavolta per abolire la pena di morte. Un clamoroso capovolgimento di posizione da parte di due leader locali della destra storica. Heller ha spiegato il suo “pentimento” con franchezza: «L’aver reintrodotto la pena di morte in California si è rivelato un fallimento colossale. Non funziona». La vera ragione della delusione per i due conservatori ha poco a che vedere con errori giudiziario il tormento etico sul valore della vita, almeno in prima istanza. «E’ una questione di costi – ha detto Briggs – perché cominciammo con 300 detenuti nel braccio della morte e oggi siamo a quota 720.
Nel frattempo tutto questo ci è costato 4 miliardi di dollari…».
Briggs e Heller hanno un approccio pragmatico che mette in crisi la base conservatrice del Tea Party: questo movimento populista è composto al 99% di bianchi, ha una cultura implicitamente razzista (come nella campagna su “Obama il Kenyano”), ma il suo appeal è legato alla protesta contro il deficit pubblico e le tasse.
Briggs e Heller hanno scoperto che il costo di un condannato a morte in California, paradossalmente, supera di gran lunga quello di un ergastolano. Sembra impossibile? Il fatto è che la pena capitale si trascina dietro una serie di ricorsi e contro-ricorsi, per i quali lo Stato spende una fortuna in avvocati. Più il costo dei super-penitenziari. Nella campagna abolizionista della California si distingue anche una ex guardiana della famigerata prigione di San Quintino, Jeanne Woodford, insieme con l’ex procuratore generale di Los Angeles Gil Garcetti che dice: «Per le ristrettezze di bilancio stiamo licenziando insegnanti e vigili del fuoco, non possiamo permetterci 185 milioni l’anno per questa follia». C’è perfino una perversa crudeltà nei confronti delle vittime: fa orrore il caso di una donna stuprata da un presunto serial killer nel 1981, che da allora continua a dover periodicamente testimoniare nei diversi gradi di ricorso del condannato a morte. Una tortura che la costringe a rivivere il suo stupro da 30 anni. «Sulla legittimità morale della pena di morte l’America si divide da decenni – osserva la giurista Paula Mitchell della Loyola Law School – ma l’argomento dei costi è politicamente neutro, e può catturare un consenso molto ampio».
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