Se Debussy ci svela quello che unisce pittura e musica

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 «Voglio vedere del Manet! e sentire dell’Offenbach», gemeva Claude Debussy da Roma dove era giunto nel 1886 come borsista dell’Accademia di Francia. Il musicista allora ventiquattrenne aveva trovato il soggiorno a Villa Medici estremamente deprimente e non vedeva l’ora di tornare a Parigi. Per potere realizzare la sua vocazione non cercava ispirazione nelle bellezze del passato, aveva bisogno di vivere nel presente e confrontare le proprie idee con quelle degli artisti a lui contemporanei. Di qui l’impazienza di ritrovarsi quanto prima nella città  di Baudelaire, Verlaine, Mallarmé, dove l’Impressionismo stava cedendo il passo al Simbolismo e giapponesismo e Art Nouveau rinnovavano il gusto dell’arredamento con stampe, vetri, mobili raffinati e inusuali. Nei suoi scritti critici Debussy ritornerà  incessantemente sul nesso fra suono e immagine e sull’interdipendenza delle arti, orientando spesso, come osserva Jean-Michel Nectoux, “l’immaginazione auditiva e visiva dei suoi ascoltatori con i titoli delle sue composizioni: Jardins sous la pluie, Reflets dans l’eau, Voiles, Poissons d’or, La Mer …». 
E la bella mostra parigina che l’Orangerie (fino all’11 giugno, catalogo Skira/Flammarion) consacra al grande compositore per i 150 anni della sua nascita, annuncia fin dal titolo – Debussy. La musique et les arts – l’ambizione «di mettere in prospettiva gli sviluppi tematici della sua musica con l’immaginario che ne è all’origine». È una ambizione che, sotto l’egida di Guy Corgeval, presidente dei musei d’Orsay e dell’Orangerie, i curatori dell’esposizione hanno realizzato in modo esemplare, ricostruendo l’itinerario biografico e artistico di Debussy alla luce delle molte suggestioni intellettuali ed estetiche da lui incontrate lungo il suo percorso. Il musicista stesso – scrive infatti Gérard Pesson – non concepisce forse la sua arte come una forma di trasmutazione, di “transcodificazione” delle sue percezioni sonore o visive?
Il primo grande quadro in cui ci imbattiamo nella mostra è quello di The Blessed Damozel (La fanciulla eletta), che Dante Gabriele Rossetti aveva dipinto nel 1877-78 a illustrazione di un poema dallo stesso titolo. Manifesto dell’estetica preraffaellita, doveva ispirare a Debussy, al ritorno da Villa Medici, La Daimoiselle élue, «la prima composizione che rivela il suo vero temperamento e annuncia l’originalità  della sua opera». Se l’onirismo di Rossetti è destinato a lasciare in lui una traccia duratura, i critici sottolineano tuttavia, fin dai suoi esordi, le analogie tra la sua musica e la pittura impressionista. Debussy stesso evoca la profondità  e la varietà  delle sensazioni che suscitano in lui «il rumore del mare, la curva dell’orizzonte, il rumore nelle foglie, il grido di un uccello» e le marine di Degas, di Turner, di Manet, come le ninfee di Monet esposte nella mostra sembrano fargli eco. Ma il musicista rifugge dalle etichette, frequenta gli artisti simbolisti che fanno capo alla Librairie de l’Art indépendant di Edmond Bailly e si schiera decisamente “dal lato dell’ombra”. Determinante è l’incontro con Maeterlinck. Quando nel 1893, in compagnia di Stéphane Mallarmé, egli assiste alle prima e unica rappresentazione teatrale parigina di Peléas et Mélisande ne rimane letteralmente folgorato. Facendo sua questa crudele storia d’amore il compositore crea infatti, nel 1902, il suo capolavoro. La ricca scelta di bozzetti di scene e costumi dei diversi allestimenti dell’opera che si sono succeduti nel tempo hanno anche il compito di ricordarci quanto problematica ne sia l’interpretazione.
Curioso, sperimentale, aperto al nuovo, Debussy è sempre pronto a rimettersi in gioco: nel 1911 scrive le musiche per il Martirio di San Sebastiano di D’Annunzio, andato in scena a Parigi, e l’anno successivo collabora a un altro spettacolo scandaloso, il Prélude à  l’Après-midi d’un faune, il leggendario balletto ispirato a Mallarmé. Una serie di straordinarie fotografie ci restituiscono alcuni momenti salienti di questa prima coreografia di Nijiginski, improntata, su consiglio di Léon Bakst, alla gestualità  ieratica delle figure dei vasi greci. Il ballerino, che si esibiva in scena indossando soltanto – novità  assoluta – una calzamaglia a macchie di leopardo, concludeva il balletto stendendosi sul velo della sacerdotessa delle ninfe e mimando il sussulto finale di un orgasmo. L’itinerario dell’esposizione mostra bene come fino alla morte, sopraggiunta nel 1918, il grande musicista abbia perseguito il “suo sogno musicale” senza mai distogliere lo sguardo dalle rivoluzioni artistiche della sua epoca, coniugando liberamente modernità  e mistero.


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