Sarajevo più lontana dall’Europa L’identità  svanita della città  martire

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Sessantaquattromila i feriti. Duecentomila se ne andarono da una città  di mezzo milione di abitanti. Molti non sono più tornati. Alla contabilità  del massacro, si sommò la distruzione fisica e morale di una «polis» autenticamente multiculturale e multireligiosa, la Sarajevo delle quattro religioni, la Gerusalemme dei Balcani. L’assedio di Sarajevo significò la messa in pratica della «pulizia etnica» teorizzata dal fanatismo nazionalista fino al grande eccidio di Srebrenica. Per questo crimine morale e culturale, oltre che per le vittime, occorre conservare la memoria di Sarajevo.
La tragedia della «polis» bosniaca portò a compimento il progetto di spartizione territoriale del Paese. La volevano i serbi di Bosnia, che in quei giorni fondarono la loro Repubblica, guidata dai criminali di guerra Karadzic e Mladic, oggi finalmente davanti al tribunale internazionale dell’Aja. La sostenne la Serbia di Milosevic, nell’ambito di quel disegno di espansionismo serbo che fu la causa principale di tanti lutti e dell’irreversibile dissoluzione della Jugoslavia. Ma vi concorsero anche il nazionalismo croato e il massimalismo militare dei cattolici dell’Erzegovina.
Nel ventennale dell’assedio, ancora si stenta ad afferrare quel buio collettivo della ragione che permise la discesa all’inferno, l’eliminazione del vicino di casa, dei compaesani, dei compagni di scuola, dei commilitoni di un esercito un tempo unitario.
Quattro anni dopo, la tragedia di Sarajevo, sotto gli occhi di una comunità  internazionale a tratti indifferente al massacro dei bosniaci, in maggioranza musulmani, a tratti impotente, colpevolmente in ritardo sugli avvenimenti, avrebbe prodotto gli accordi di Dayton, la «gabbia istituzionale», una parvenza di Stato unitario che regola ancora oggi la convivenza fra cattolici, serbi di Bosnia e musulmani.
Sarajevo e la Bosnia sono ricostruite, molte ferite sono medicate, ma l’identità  della «polis» è stata cancellata nonostante il ricambio generazionale. Si spera non per sempre, ma questa amara constatazione accompagna la memoria dei morti e il futuro dei sopravvissuti. La «gabbia istituzionale» ha creato una gigantesca burocrazia, garantisce la spartizione di posti e aiuti su base etnica o religiosa, blocca il futuro e mortifica le speranze delle nuove generazioni, più propense a emigrare che a sentirsi ripetere, fin da bambini, la balcanica storia infinita di torti e vendette. L’impronta musulmana, maggioritaria, è più evidente che in passato, anche per i generosi investimenti di Paesi islamici e della Turchia.
A Sarajevo, a parte l’omaggio alle vittime, c’è poco da celebrare, proprio perché la storia non ha reso giustizia al martirio della città  e del Paese. La Bosnia, prima vittima della guerra nella ex Jugoslavia, è rimasta più lontana dall’Europa. I nemici di ieri sono invece più vicini a Bruxelles. Ma è avvicinamento in ordine sparso, che promette poco di buono nel momento più complicato dell’Europa stessa. Ovunque le divisioni sono state legittimate in una sorta di «democrazia etnica», la faccia pacifica della «pulizia» perseguita con le armi. La Croazia, dal prossimo primo giugno, sarà  il ventottesimo Stato dell’Unione, accanto alla Slovenia che entrò nel 2004. La Serbia si è messa in ordine di marcia. Il Kosovo dovrà  aspettare un riconoscimento internazionale completo, ma intanto ha adottato l’euro, senza far parte dell’eurozona. La Macedonia ha ottenuto lo status di candidato, ma resta aperto il contenzioso con la Grecia sul nome della nazione macedone. A Sarajevo, l’Europa è una presenza importante, come lo sono istituzioni internazionali e nuovissime ambasciate. Ma è una presenza solidale e di tutela, economica e politica, che tiene nel congelatore le tensioni e al tempo stesso la speranza di normalità .


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