“Quando mangiavamo pane nero” Resistenza e comunismo un mondo dentro i suoi libri

by Editore | 10 Aprile 2012 6:15

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Peccato che Miriam se ne sia andata senza poter finire l’ultimo libro al quale aveva messo mano dopo aver deciso, per ragioni che si possono intuire, di non scrivere più per Mondadori e di passare a Rizzoli. Spero che quella autobiografia, tessuta di materiale ancora incompleto, abbia però forma e consistenza sufficienti per poter essere editata. Sarà  come leggere il testamento di questa donna straordinaria di cui vorrei ricordare, prima ancora dei libri, due elementi del temperamento e della vita. Il primo è la laicità , nel senso proprio e corretto del termine, ovvero la libertà  del giudizio, la libertà  dal pregiudizio. Laica come comunista e come ebrea, come sindacalista e come animatrice del movimento femminile. Il secondo è l’energia che si manifestava tra l’altro in quella sua risata alta, repentina, contagiosa, che dava subito una gran voglia di partecipare dei suoi sentimenti e di essergli amico. Miriam è stata una donna fortissima, capace di affrontare momenti cruciali con una sorprendente freschezza e velocità  di reazioni. Non più tardi di due settimane fa le chiesi se aveva intenzione di venire a Parigi. Mi ha risposto “verrò senz’altro verso la metà  d’aprile, voglio vedere da vicino queste elezioni (presidenziali francesi – NdA)”. Parole così a 86 anni e già  malata, anche se lei trattava la malattia non dico con indifferenza perché stare male le seccava molto, ma con un dichiarato disprezzo. Il primo libro di Miriam che voglio ricordare è Pane nero del 1987, più volte rieditato. Raccontava la vita quotidiana degli italiani – ma soprattutto delle italiane – durante l’ultima guerra, quando il pane era razionato oltre che di pessima qualità . Titolo bellissimo, come il libro. Anche in quel racconto che avrebbe potuto limitarsi alla cronaca, per lei che era una cronista nata, Miriam guardava invece a quegli anni e a quei sacrifici con l’occhio di oggi. Era come se avesse voluto suggerire al lettore tra le righe: guarda che da lì veniamo, quel passato ci riguarda perché se siamo come siamo dipende anche da ciò che una o due generazioni fa tutti, e soprattutto le donne, abbiamo dovuto patire e dal cammino fatto da allora e dalla fatica che quel cammino ci è costato. In quel libro le donne erano considerate le “uniche vincitrici di una guerra perduta”. Madri, mogli, operaie, borghesi, ebree e gentili, le “republichine” e quelle che avevano scelto la Resistenza. In quelle pagine l’autrice s’era come sdoppiata. Trasparivano le sue esperienze di giovanissima staffetta partigiana ma c’era anche la cronista che ci faceva capire perché, dopo secoli, le donne avevano finalmente cessato di essere considerate “spose e madri esemplari” conquistando per la prima volta il diritto di voto (2 giugno 1946). Nel 1995 uscì Botteghe Oscure addio. Com’eravamo comunisti. Quando dico che Miriam era laica penso soprattutto a quel libro, uno dei primi dove si facevano i conti col proprio passato, senza sconti e con tutta la franchezza necessaria. La cronista di razza si vedeva, ancora una volta, nel saper cogliere i dettagli significativi. Per esempio il doppio ascensore nel palazzone rosso di Botteghe Oscure appena inaugurato: uno riservato ai membri della direzione, uno per tutti gli altri. Il segno d’una separazione, scriveva, fino a quel momento impensabile nella vecchia sede di via Nazionale. C’era la vita del militante comunista, gli ideali che lo animavano e che facevano del vecchio Pci un unicum nel panorama italiano. Ma anche le ipocrisie, a cominciare da un moralismo di ritorno che faceva tenere un po’ alla larga un omosessuale come Pasolini e che tendeva a ricacciare le donne in quel ruolo di “madri e spose” dal quale la guerra e il dopoguerra le avevano appena liberate. Nei diciotto mesi della Costituente c’era già  stata la brutta storia dell’articolo 7 (Concordato e patti lateranensi) approvato col voto dei comunisti. Poi era venuto il lungo rifiuto a impegnarsi nella campagna per il divorzio, superato solo alla fine e dopo molte titubanze. Idem per l’aborto. Per superare tutto questo ci voleva molta fiducia negli obiettivi delle lotte che il partito andava conducendo e che in effetti stavano contribuendo a modernizzare soprattutto il mondo del lavoro e delle campagne. Ma per uno di quei paradossi che spesso la storia presenta, proprio la fiducia dei militanti negli obiettivi che tanta forza aveva dato al partito, si trasformò in una debolezza quando in nome della “fiducia” si rimandarono quelle trasformazioni in senso riformista che avrebbero potuto cambiare la nostra storia.In un altro libro Diario italiano – 1976/2006 (Laterza) Miriam richiamava alcuni suoi editoriali e cronache scritte per Repubblica il cui primo numero (14 gennaio 1976) coincide appunto con la data iniziale del libro. Ancora una volta la storia e la cronaca, i grandi obiettivi della politica scrutati attraverso le parole e i gesti di molti protagonisti involontari. Scriveva Miriam nell’Introduzione di aver pensato ad un Diario fatto da “coloro che hanno attraversato questi trent’anni con le stesse speranze, curiosità , emozioni, indignazioni, delusioni alle quali ho dato voce, o tentato di dare voce, con i miei articoli (…) rapide e talvolta sbiadite fotografie di uomini e donne che con il loro carico di sogni e ambizioni furono, in modi diversi e magari per un giorno soltanto, protagonisti della storia e della cronaca”. Di quegli uomini e quelle donne, di molti di noi, Miriam Mafai è stata testimone e cronista, compagna, amica indimenticabile.

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