Quella triste sindrome del multitasking

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Non riusciamo più a immergerci in ciò che abbiamo attorno. Forse perché, come animali, ci troviamo a disperdere forze e energia non in un «fare», ma in un’insistita, nevrotizzante «rielaborazione» degli spazi che ci contengono. Le poche aperture che ci concediamo sono a quel cielo basso che scambiamo per un orizzonte. Già  nel 1933, in un saggio significativamente titolato Erfahrung un Urteil («Esperienza e povertà »), Walter Benjamin scriveva della povertà  di una esperienza – una «indigenza nuova», la chiama il filosofo tedesco – consumata dal «grande shock» della Prima guerra mondiale, che aveva visto i suoi reduci tornare in silenzio dal fronte, senza storie da raccontare (un silenzio magistralmente descritto nel primo episodio di Heimat di Edgar Reitz). Oggi siamo circondati da storie. Ma sono storie senza spessore, a buon mercato, che ci sfiorano e scivolano via, si divorano da sé e non fanno esperienza. Mentre noi, che di quelle storie dovremmo essere compartecipi, ci consumiamo nello sforzo di rielaborarle in uno scenario in continuo movimento. Scenario che dà  solo l’illusione di poterle e di poterci contenere: diari facebook, nuove apps, piazze senza un centro e strade senza senso, città  nervose, tweet compulsivi da «nessun freno, nessun pudore». Persino i volti di certi amici non li riconosciamo più, deturpati come sono dalla smorfia di acerbi e improvvisi restyling estetici e sensoriali. Se ne potrebbe dedurre che il sentire abbia reso impossibile il dissentire, il chiacchiericcio dissolto il dialogo, mentre l’ascolto si sarebbe consumato in reazioni che precedono le azioni.
È davvero tanto singolare, quindi, che la nostra sia una generazione di gente affetta da sindrome dell’attenzione («Attention Deficit Hyperactivity Disorder» – Adhd)? Chiediamoci: che ne sarebbe di un attore che, preparata al meglio la parte, se la vedesse cambiare minuto dopo minuto, battuta dopo battuta, addirittura istante dopo istante nel corso di una prima infinita, che non ammette repliche? Semplice, per lui sarebbe il panico e per noi spettatori, il caos. Eppure, con un caos panico di questo tipo ci confrontiamo giorno per giorno. E ne paghiamo dazio, al lavoro, a casa, nel tempo libero, persino negli affetti declinati al presente assoluto degli pseudo-scenari di facebook, twitter, google e nelle relazioni fragili disegnate dalla rete. La frenesia non crea nulla di nuovo, semplicemente accelera il corso del già  noto. Fino a dove? Fino a quando?
Il XXI secolo, ci ricorda ora Byung-Chul Ha nel saggio La società  della stanchezza (traduzione di Federica Buongiorno, nottetempo edizioni, pp. 81, euro 7), non è più improntato sul «paradigma immunologico» che vedeva nel rapporto tra amico e nemico, tra interno e esterno il confine – chiaramente incerto – sul quale elaborare le proprie strategie di difesa o controllo. Il secolo appena trascorso temeva il contagio, lo Straniero, l’Altro, e se ne immunizzava. Il nostro è un secolo di bulimici. E non ci si immunizza dall’obesità  che ne consegue. Non ci si difende più dall’Altro, non lo si ama nemmeno, e si ha un bel dire che dobbiamo «farci prossimo». Ma se non si ha più un amico o un nemico con cui confrontarsi, non si ha nemmeno qualcosa o qualcuno a cui approssimarsi. Lo scenario è piantato nei nostri occhi, troppo vicino per essere capito. Troppo lontano per essere ampliato. Il «nostro» scenario è una dimensione senza limiti e confini che – osserva Ha, docente di teoria dei mediaa Karhlrue – potremmo definire «neuronale» nella sua struttura e «stanco» nelle sue derive e nei suoi esiti. Non arriviamo più stanchi alla meta, solo perché partiamo già  stanchi e questa stanchezza è quasi la precondizione per partecipare a una corsa senza fine. La depressione come sintomo sociale è, in questo, nella lettura di Byung-Chul Ha, un potente indicatore di cambiamento che offre solo un calco o un negativo dell’iperattività  accidiosa che dalle aule di Harvard o dal retrobottega di Wall Street si espande ai nostri neuroni, segnando il forse definitivo passaggio dall’homo faber all’animal laborans: un uomo (uomo?) che non lavora, ma sfrutta – primariamente sé stesso. 
Questa specie di cavia umana diffusa e confusa è una belva asociale, senza opere né giorni, che dispiega il proprio tempo unicamente nella lotta per la sopravvivenza e, nella guerra di tutti contro tutti, trova l’unico senso e l’unico spazio per vivere. Vive in assenza degli altri, il nemico è dentro di lui e in quel web che, oramai, altro non configura se non un tessuto nervoso e connettivo, una pelle psichica fragile e globale. 
La società  della stanchezza è, però, anche una società  della prestazione, non del lavoro. Richiede e impone prestazioni che mettono sotto pressione l’individuo a cui è richiesta – negli uffici, nelle fabbriche, a scuola, nella vita – una praticità  «multitasking» e un’attenzione estesa ma superficiale simile a quella dell’animale che, per vivere in un habitat selvatico ha bisogno di suddividere la propria attenzione tra diverse attività  in vista di un potenziale attacco. Attacco – che altro è la pratica del retwett se non una forma, per quanto stinta e sottotraccia, di attacco preventivo? – che, se arriverà , non sarà  più da un «fuori», ma da un dentro sempre più superficiale e diffuso e nella forma di un «infarto psichico». 
La compulsività  cui ci costringono i mezzi senza fine di una nuova postmodernità  già  stanca di sé, ha di fatto tolto di mezzo quella «immersione contemplativa» che, per secoli, ha permesso all’uomo di orientarsi su scenari lunghi, calibrando di conseguenza le proprie pratiche? L’uomo non è, né può essere «multitasking». Multitasking lo sono la bestia o il dio. Non si può cancellare la «vita contemplativa», senza distruggere in tal modo anche quella activa. Il resto, appunto, sono scenari in movimento. Oppure, come già  scriveva Benjamin, dovremmo rammentarci della «favola del vecchio che, sul letto di morte, dà  ad intendere ai figli che nella sua vigna è nascosto un tesoro. Loro non avevano che da scavare. Scavarono, ma del tesoro nessuna traccia. Quando però giunge l’inverno, la vigna rende come nessun’altra nell’intera regione. I figli allora si rendono conto che il padre aveva loro lasciato un’esperienza (Erfahrung): non nell’oro sta la fortuna, ma nell’operosità ». Ma anche questa è oramai storia passata. O forse no?


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«N on fare il furbo, racconta». Hemingway per i cronisti di sport è stato Shakespeare. E da ragazzi non si legge solo, si inseguono passi, si cerca la stessa strada, si dividono respiri. Si vuole arrivare vicino, scoprire, sentire. Come gli indiani che mettono l’orecchio a terra per intuire velocità  e direzioni. C’era solo da scegliere un territorio: Africa, Spagna, Cuba, Key West, Parigi, in ordine sparso. Non solo posti, geografie, ma sale parto, concepimenti letterari, gestazioni. Hemingway faceva guerre: al mare, ai pesci, ai tori, ai leoni, tutto era un ring dove dare pugni e restare in piedi. Vincitori e vinti, avere e non avere, sparare e spararsi, ma col fucile: Cary Grant era più bravo di lui. Per questo era importante vedere.

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