Quel giorno che noi partigiani dell’Oltrepò entrammo a Milano
Pubblichiamo uno stralcio dell’articolo di Italo Pietra uscito nel dicembre 1945 nel volume «Anche l’Italia ha vinto». Italo Pietra, nato nel 1911 a Godiasco (Pv), è scomparso nel 1991. Alpino fino all’8 settembre ’43, poi in montagna come «Edoardo», consulente militare delle brigate partigiane di cui è divenuto comandante generale guidandole alla liberazione di Milano. Socialista, ha lasciato la politica per il giornalismo. Ha diretto il «Giorno». Licenziato all’avvento del centrodestra, ha assunto nel 1974 la direzione del «Messaggero» subendo l’anno dopo un altro licenziamento su richiesta della Dc.
(…) Quando saremo a Varzi nella caserma alpina
ti scriverò biondina
la vita del partigiano
La vita del partigiano
si l’è una vita santa
s’ mangia, s’ bev, as canta pensieri non ce n’è.
Pensieri ce n’è uno solo

l’è quel della morosa
che gli altri fanno sposa
e mi fo il partigian.
Dunque, questa canzone è nata un anno fa, d’agosto, nell’Oltrepò pavese, quando là , su per le montagne che guardano Varzi, e vedono il gran mare di terra bianca e verde fino alle Alpi, vivevano tre brigate, e non avevamo avuto neanche un lancio.
Eravamo tre brigate, eravamo mille armati, eravamo padroni di una zona libera fatta di sette valli, di ventidue comuni, di cinquantamila abitanti; ma il magazzino armi e munizioni era ancora sulla via Emilia, ogni arma un agguato, così tanti ragazzi, come Armando, Bianchi e Walter, sono morti con la faccia sull’asfalto. Non avevamo avuto neanche un lancio.
Da Pometo capitale della Matteotti, da Zavattarello garibaldino, dal vecchio bel Romagnese tutto ribelle, scendevano a sera i gialli camion partigiani della Wehrmacht verso gli agguati al Po e lungo la via Emilia. Ecco Alfredo il moro col cappello alpino, ed ecco, col berretto da Ss, Fusco, che quasi ogni notte si guadagna una uniforme, e Maino senza cappello conte Luchino dal Verme garibaldino. Ed ecco il padre dei garibaldini pavesi, è quel pallido ragazzo sui vent’anni, col braccio al collo in una fascia rossa: si chiama Americano, ed è italiano, studente, comunista. Quello in piedi che ride senza denti, porta scritto con filo d’oro sulla camicia rossa «Caramba dominatore dei falsi profeti», ma una sera le brigate nere lo prenderanno vestito da prete in una osteria di Casteggio, e andrà al muro come spia.
Ragazzi morti, ragazzi vivi, ormai sembra un sogno, ma chi ricorda quelle sere piene di fisarmoniche, sten, ragazze, buoi squartati, polente, automobili, camicie rosse, mele cotte, scabbia, pidocchi, messaggi speciali, Sangue di Giuda (è un vino dello Stradellino, ndr), sigarette tedesche, cioccolato americano, cappelli alla garibaldina, ex prigionieri inglesi, capisce perché certi ragazzi, che in montagna hanno combattuto per la libertà , oggi sono quasi prigionieri di quel sogno.
Verso l’alba si sentivano i motori, e allora, per esempio a Romagnese, la gente correva al vecchio muro del castello, dal muro guardava lontano come dal ponte di una nave. Ecco alla svolta il ’34 della Sesta Brigata, cantano, c’è il bandierone delle nottate d’oro, questa volta sono sacchi, saranno sacchi di zucchero, ecco anche un camion giallo che deve essere l’ultima preda; si vede ruzzolare una forma di parmigiano, ci sono quattro tedeschi, quello è un ufficiale della repubblica.
Il comandante della Sap corre a far suonare a festa il campanone; il comandante che si chiama don Alberto Picchi, parroco del Paese (…)
Poi è venuta la neve, era il 23 di novembre, allora è venuto il grande rastrellamento (dei Mongoli della Turkestan, ndr). Ecco gli alpini e i bersaglieri di De Logu, che cantano alla tedesca «per l’Italia, per l’Italia» e vuotano le case, ecco gli austriaci della stella alpina belli e terribili, ma avanti a tutti vengono i kirghisi e i calmucchi e i mongoli del 162 ÌŠ reggimento, guai alla donna che passa per la vita di queste bestie matte.
Da Montalto e da Rocca Vistarino venivano avanti nella nebbia su un fronte di pochi chilometri, e intanto i 75 e i 149 e i mortai da 80 scuotevano i boschi e le case. Quando un ufficiale tedesco cadeva, la vendetta era di case bruciate, di uomini al muro, di donne giovani.
Chi sa fermare una valanga?
I partigiani erano senza cannoni, le mitraglie avevano pochi colpi, non fu che un lavoro disperato di imboscate, e di agguati; fu la tetra vita dei boschi, Pietracorva, Valformosa, Pizzocorno, Oramala, Valverde, soli come lupi. Dall’alto delle grandi montagne bianche e nere, dal fondo dei boschi pieni di neve, si sentiva l’urlo dei mongoli, e i gridi delle donne; di notte gli incendi dei villaggi sventolavano all’orizzonte.
Settanta giorni è andato avanti il rastrellamento, settanta giorni.(…)
Noi andiamo verso la città . In testavalamotodiGimediCiro,poi viene la macchina del comando Zona, poi vengono otto camion pieni di partigiani che cantano.
Alle nostre spalle, a destra e a sinistra dei camion, si vedono, lontano, le colline dove eravamo ieri, e le montagne dove un anno fa siamo nati partigiani. Da una parte sta il rosso e il verde di Cigognola, e in fondo al palazzo del castello dormono nove partigiani. Dall’altra parte si vedono le gobbe del Penice; di là da quei monti c’è Vesima, con la chiesa bianca e il sagrato, e un anno fa sull’erba del sagrato hanno disteso Diego e Chicchiricchì, e quattro altri ragazzi, erano tutti feriti, poi li hanno finiti con bombe a mano, sangue e pezzi di carne sull’erba davanti alla chiesa. E adesso noi andiamo verso la città di Diego, e i compagni di Diego cantano, così è la guerra.
La strada va in mezzo ai prati, si rivedono i filari di pioppi, e le vecchie rogge lombarde che non si sa dove vanno a finire, e oggi la pianura lombarda è piena di colonne tedesche che non si sa dove vanno a finire; è il 27 aprile, noi andiamo verso la città da liberare.
Ieri abbiamo lasciato Carli a Voghera, e Marco a Casteggio, e Carlo a Cigognola, e poi tre ragazzi presso Zinasco al traghetto del Po, e adesso sono in mezzo ai fiori; ‘poi abbiamo lasciato trenta ragazzi a Pavia, e intanto ne sono anche caduti ventidue a Vigevano, e adesso sono tutti in mezzo ai ceri e in mezzo ai fiori. Un’ora fa alla Certosa, abbiamo preso duecento tedeschi, dieci minuti fa a Binasco due caccia inglesi hanno distrutto un nostro camion, sangue, ancora sangue sull’asfalto. E certo ancora qualcuno di noi deve morire questa sera laggiù nella città da liberare, i partigiani cantano, così è la guerra. Eccola finalmente dopo tanti mesi, manca il respiro, adesso i partigiani non cantano più; la madonnina viene avanti adagio adagio sui tetti e sulle piante. Poi Milano è davanti ai nostri occhi, si sentono le fucilate lontane dei tedeschi che aspettano noi; la voce del commissario Piero canta, «O mia bela madunina, ti te dominet Milan»; è quello che fra tre ore partirà per Dongo.
Adesso andiamo tra case e naviglio, le fucilate tedesche ci aspettano al centro, la gente grida, noi non siamo che cinque ragazzi vestiti di lana inglese in una macchina tedesca con bandiera tricolore; e abbiamo paura di Mussolini. C’è tanta gente che grida, si capisce che la guerra se ne va, si capisce che la libertà viene avanti sull’asfalto con le nostre automobili tedesche, ma noi abbiamo paura di Mussolini, la segreta paura che uno di noi balzi in piedi, come lui allora, e guardi e saluti dall’alto il rosso e il nero della folla, come lui allora. E invece noi siamo partigiani, e i nostri nomi dovranno morire, appena la guerra sarà morta.
Sono belli i nostri ragazzi con gli occhi lontani, con le belle divise gialle americane; ma, accidenti, è Italia, non gridate, non gridateci più «Welcome, welcome».
Così noi entriamo nella città piena di bandiere rosse, di tricolori, e di fucilate, nella città dove tutti quelli che ci guardano hanno gli occhi rossi.
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