Quei numeri e le nuove disuguaglianze

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Mettere il nostro Pil in condizione di riprendere colore (oggi è terreo) e allo stesso tempo attenuare le diseguaglianze che schiacciano in basso la società , ne deprimono le energie vitali e rendono praticamente fermo il mercato interno dei consumi. Ma il dibattito sull’ineguaglianza in Italia è estremamente ricco e i sociologi più attenti chiedono di andare nella ricognizione al di là  del mero e novecentesco indice di Gini – che misura statisticamente la distanza tra i più ricchi e più poveri – e comprendere tutta un’altra serie di handicap che connotano la seconda modernità . Stiamo parlando delle differenze generazionali, di quelle di genere e di quelle che riguardano la convivenza con gli immigrati. Sono diseguaglianze che non si misurano con una tabella da servizio studi ma sono quelle che oggi segnano il divario di velocità  tra una società  e l’altra. In definitiva è sicuramente giusto battersi per una redistribuzione graduale di ricchezza e di redditi ma bisogna sapere che ci rivolgiamo a una platea più larga e non solo ai capifamiglia della tradizione socialdemocratica. I dati sulla iper-concentrazione dei patrimoni forniti ieri da palazzo Koch ci parlano infatti di un capitalismo ostaggio «di pochi e anziani» e nella quale è più difficile che in altri Paesi ribaltare la condizione di partenza. Si pensi, ad esempio, al peso della ricchezza immobiliare e al ruolo conservativo che svolge in Italia. Si pensi anche alle condizioni di vantaggio di cui gode il capitalismo di relazione nei confronti della piccola impresa. Per restringere le diseguaglianze abbiamo, dunque, bisogno di una società  più aperta e mobile che conceda più chance ai Piccoli, ai giovani, alle donne e agli immigrati e che sul piano politico culturale sappia conciliare la libertà  economica con la rivisitazione del welfare. Un capitalismo moderno nel quale se una donna imprenditrice si reca in banca per chiedere un fido non si senta dire: «Torni accompagnata da suo marito». Una riflessione, infine, va fatta su una tendenza che si va pericolosamente diffondendo e potremmo definire di «statistica spettacolo». La produzione del dato-monstre nel giorno e nell’ora giusta per avere un quarto d’ora di celebrità  alla lunga genera rigetto e confonde l’opinione pubblica. Un signore che passò alla storia come decisionista era solito dire «meglio meno, ma meglio».


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