QUANDO LA STORIA INSEGNA
Dal «Corriere della Sera» D’Annunzio canta le Gesta d’Oltremare in terzine dantesche, dieci canzoni, 8 ottobre 1911-14 gennaio 1912. Albertini gliele paga 1250 lire l’una e tira un milione di copie. Non è più tempo d’empiria giolittiana. Gl’interlocutori naturali nel riformismo socialista perdono quota: smania l’antilibico Benito Mussolini; il «sindacalismo rivoluzionario» dista poco dalle cabale imperialiste. Enrico Corradini, piccolo letterato, ha scoperto la guerra di classe tra Stati e Giovanni Pascoli tiene un discorso che ai miei tempi figurava nelle antologie, «La grande proletaria s’è mossa». In capo a due anni, quando un terrorista serbo uccide l’erede al trono absburgico scatenando i cannoni d’agosto, nasce l’equivoco cartello: dai reazionari (il cui disegno è chiaro, guerra da preda e ferreo ordine padronale) ai sogni d’una crociata virtuosa, vedi Salvemini e Bissolati; l’avventuriero Mussolini, espulso dal partito, guida uno pseudosocialismo interventista. Anime incompatibili, concordi però nel condurre alla festa sanguinaria il paese che non la vuole. Retorica dannunziana e «Corriere della Sera» ispirano il colpo di Stato con cui Antonio Salandra, avallato dal Quirinale, muove piazze urbane (impiegati dei ministeri, studenti ecc.) spaventando le Camere, e porta l’Italia in guerra. Francesco Saverio Nitti lo descrive torpido levantino con fondi d’anima nera.
Gli strateghi temevano che l’affare cruento durasse poco. Marte li esaudisce. Passano quarantun mesi e senza l’intervento americano Dio sa dove finirebbe l’incauta intervenuta: sta tra i vincitori ma geme sulla «vittoria mutilata», metafora dannunziana; i meno avidi aspettavano l’impero adriatico annunciato dall’orrenda-ridicola Nave, il cui trionfo sulle scene (inverno 1908) era cattivo sintomo; la Proletaria, più che mai tale, subisce l’egemonia francoinglese dalla Mesopotamia all’Atlantico. Il velleitario biennio rosso rilancia Mussolini: era sparito; nemmeno un seggio nella XXV legislatura, aperta l’1 dicembre 1919; s’è rimesso in gioco fornendo squadre agli agrari. Le «giornate radiose» 1915 prefiguravano la marcia su Roma. Chiamato al governo, 31 ottobre 1922, vi resta vent’anni, otto mesi, ventisei giorni. Dux (titolo del panegirico che gli dedica Margherita Sarfatti) ha del carisma: scrive e parla in battute incisive, cospicuo giornalista; né gli manca l’estro politico ma, egomane furioso, non percepisce i quadri causali. Meno impulsivo o più fortunato nelle scommesse, sarebbe condottiero a vita, tanto è l’ascendente sul grosso degl’italiani: coltiva fantasie pericolose; scialando le riserve, conquista un volatile impero etiopico in puro passivo; crede d’avere forgiato una razza guerriera; sbaglia calcoli legandosi al carro hitleriano; dichiara guerra a Francia, Inghilterra, Russia, America, non avendo materie prime né industria bellica, senza armi e dottrina sul come usarle, convinto che basti il gesto. Siamo nel paese dei mondi virtuali. Chiedeva mille morti da spendere al tavolo d’una grassa pace. Finisce molto male, appeso come Cola di Rienzo (Roma, mercoledì 8 ottobre 1354-Milano, domenica 29 aprile 1945), visionari tutt’e due.
L’Italia rinasce perché, fuori delle false glorie, ha talento laborioso ma infiacchita dal benessere, nei quarantasette anni seguenti perde fiato ingaglioffendosi. L’ultimo regime consortile muore corrotto e chi subentra? L’arcicorruttore, finto uomo nuovo, stregone d’un impero mediatico davanti al quale il ministero fascista della cultura popolare era opera buffa. Calca la scena diciotto anni, dominante anche negl’intervalli d’otto e mezzo. A colpo d’occhio risulta improponibile ogni paragone col demiurgo romagnolo: non ha l’ombra d’idee politiche; formidabile però nell’accumulare soldi coniugando frode, plagio, corruzione; s’era allevato «un popolo» mescendo ipnosi televisiva, secondo modelli inesorabilmente intesi al peggio; parlamentari su misura gli votano qualunque cosa chieda, roba molto privata. Li comanda a fischi. Quattro anni fa, dopo due governi fallimentari, stravince salutato col cappello in mano dai perdenti. Saremmo suoi sudditi se la crisi economica planetaria non l’avesse disarcionato. Notevole l’analogia con quanto era avvenuto domenica 25 luglio 1943.
Sono tanti, quarant’anni su cento d’inebetimento gregario; è chiaro che l’Italia abbia pochi anticorpi; la prossima volta niente garantisce salvezza gratuita in extremis. L’anamnesi enumera fattori in lunga fila: particolarismo politico, Controriforma, debole tensione etica, mercati d’anime ecc.; e i chierici tradiscono, lamentava Julien Benda. Tecnologie del falso presuppongono un passato fluido: ridisegnandolo qualunque mago dispone del futuro; è così plastica la materia grigia. Le lobectomie cominciano dalla confisca delle parole pericolose. Tutto sta nel ridurre l’area del pensiero, moltiplicando rumori, fumisterie, stereotipi, ignoranza tecnicoide. L’acquisito rifiuta ogni discorso trasparente, né sopporta lo spettro della realtà : un ottavo o sedicesimo d’idea gli gonfiano lunghe tiritere; l’intelligere diventa vizio e fatica, impopolarissimi («faticoso» è stigma molto usato dai censori); acquistano alto pregio mugolii, mimiche, trilli farfallini; al primo sospetto d’una quadratura sintattica qualcuno estrae già la pistola. Chiudiamo con un ricordo. Cuneo era città naturalmente aliena dalle retoriche fasciste: Achille Starace l’aveva definita «vergogna d’Italia»; correvano analisi caustiche del carnevale nero. Antropologicamente parlando, stavamo meglio allora.
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